Silvia Ronchey

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L'ultima immagine

2021

James Hillmann e Silvia Ronchey

Rizzoli

Cover L'ultima immagine

Questo libro postumo racchiude l’estremo pensiero di James Hillman. Non è solo la summa e l’ultimo approdo della riflessione sull’immagine che fin dall’inizio sostanzia la sua idea di anima e tutta la sua psicologia. È anche il testamento, etico e politico, che uno dei massimi pensatori del Novecento ha voluto strenuamente concludere sul letto di morte, restando pensante sino alla soglia finale dell’intelletto, dell’introspezione, della biologia stessa. Vi ha depositato l’ultima immagine, appunto, di sé e del suo sistema psicologico e filosofico. Fin dal pensiero del suo maestro Jung — ma anche del platonismo antico e rinascimentale o dell’islam sufi di Corbin — l’immagine è la materia di cui è fatta l’anima individuale. È allora proprio curando il nostro modo di guardare un’immagine che Hillman ci consegna una nuova terapia dei mali che oggi sempre più affliggono l’anima collettiva. Una Via Verde, immanente alla psiche, per salvare la Terra dalla catastrofe ecologica. Un ritorno alla “Grecia psichica”, al suo principio di laicità, di “inappartenenza”, di tolleranza, contro ogni fondamentalismo. Una riscoperta del “genio femminile”, l’importanza del nuovo e antico potere della donna, del suo ruolo nella composizione dei conflitti psichici, e quindi politici, dinanzi alla “caduta” della civiltà occidentale e alla crisi endemica delle sue economie. È nel settembre 2008, lo stesso mese e anno del crollo di Wall Street, che si svolge il “primo tempo” di questo dialogo con Silvia Ronchey, ispirato dalle immagini dei mosaici di Ravenna. Il suo “secondo tempo”, consumato in punto di morte nell’ottobre 2011, esattamente dieci anni fa, affida all’umanità del terzo millennio un insegnamento reso con la tenacia e la determinazione di un moderno Socrate, a testimoniare quella verità che si scorge ed esprime solo imparando a fermare lo sguardo, per cercare dentro ogni immagine l’ultima immagine.

 

«Come posso io, mentre sto morendo, parlare di immagini, o dell’immagine,o di una immagine come rivelazione di verità? che cosa sanno le immagini? che cosa non sanno? perché vengono a noi?»

 

Il segreto dell’immagine, una nuova psicologia per curare la nostra anima e quella del mondo, la sfida del pensiero al dolore e alla morte. Il testamento di James Hillman nel suo rivoluzionario libro postumo.


Altro su questo volume:

Riconoscimenti (1)

  • Premio Viareggio – Rèpaci 2022 93° Edizione 2022

xAudio e video (8)

  • 2022 | L'ultima immagine. Il testamento di James Hillman. Intervista a Silvia Ronchey

    Silvia Ronchey, intervistata il 28 maggio 2022 nella sede dell’Accademia Vivarium Novum, in occasione del Convegno internazionale Il conoscitore di segreti: Il lascito intellettuale di Elémire Zolla (1926-2002), parla del libro "L' ultima immagine" scritto con il filosofo e psicologo americano James Hillman e pubblicato da Rizzoli nel 2021. 

  • 2022 | Immagini vere e false, femminilità di Ravenna, centralità di Bisanzio

    Bentornati all’Ombelico d’Oro, rubrica culturale diafana per tempi torbidi. Risale a qualche mese fa, precisamente allo scorso ottobre, l’uscita di un libro destinato a lasciare un segno nella storia culturale di Ravenna. Parlo de L’ultima immagine, edito da Rizzoli, un saggio a due voci fra James Hillman, tra i più importanti psicanalisti e filosofi americani del ‘900 e Silvia Ronchey, la più affermata bizantinista italiana. 

    Correva l’anno 2008. A pochi giorni dal fallimento della Lehman Brothers, a cui seguirà da lì a poco lo scoppio della più grande recessione economica dei tempi moderni, Hillman arriva a Ravenna per osservare e riflettere su quelle stesse immagini che, fra il 1913 e il 1933 affascinarono profondamente il maestro Carl Gustav Jung. L’obiettivo è ambizioso: capire quali immagini creò la psiche collettiva per far fronte al crollo dell’Impero romano d’Occidente, proprio oggi che l’Occidente sta entrando in un’altra fase acuta di crollo, fra recessione economica, cambiamenti climatici e (ma ancora non si poteva prevedere) lo scoppio di una guerra europea. Ma, più radicalmente, si tratta in fondo di capire che cos’è un’immagine e qual è il suo effetto sulla nostra interiorità. 

    In quella tarda estate del 2008 Hillman è accompagnato dalla moglie e da Silvia Ronchey, a cui lo legano una profonda amicizia e alcuni libri scritti in precedenza, sempre a partire da dialoghi liberi. I due si lasciano con il progetto di riprendere la conversazione una volta finita la prima sbobinatura ma, improvvisamente, Hillman 

    si ammala. Passa qualche anno di inutili cure mediche: Hillman sente avvicinarsi la fine e decide di riprendere quel progetto su Ravenna che considerava essenziale per il suo pensiero. Nel 2011, in America, Silvia Ronchey raccoglie le sue ultime testimonianze filosofiche, che dovranno essere pubblicate, secondo l’intenzione dell’autore, solo 10 anni dopo la sua morte. 

    L’ultima immagine è un testo complesso, per certi versi aporetico, proprio come i primi dialoghi platonici. Attraversato da oscurità e improvvisi lampi di illuminazioni filosofiche, intriso di una cultura alta ma vissuta, contiene alcune fra le più sorprendenti interpretazioni dei nostri mosaici che mi sia capitato di leggere. 

     

    L’INTERVISTA 

    Partiamo dalla forma di questo saggio: signora Ronchey, perché scegliere il dialogo? È una forma antica – basti pensare ai dialoghi platonici – ma poco esplorata nella saggistica contemporanea. Da dove viene questa necessità? 

    «Hai evocato giustamente Platone, e non dobbiamo dimenticare che Hillman si è sempre professato platonico. La sua filosofia ha moltissimi tratti in comune col pensiero platonico e in particolare neoplatonico. I suoi primi e più importanti scritti sono quelli su Plotino e Marsilio Ficino, che riguardano la definizione del concetto di “anima del mondo”, centrale per il suo progetto di terapia collettiva dell’umanità. Non dimentichiamoci anche che Hillman era uno psicanalista, il migliore e prediletto allievo di Jung; dopo la sua morte, sostituì il maestro alla direzione dello Jung-Institute di Zurigo. Il meccanismo del dialogo è maieutico: induce a partorire, a 

    creare concetti. Hillman non era uno scribacchino. Ha scritto libri importantissimi, ma sempre legati a una necessità comunicativa. I suoi libri nascono da scambi, conferenze, colloqui, lezioni. Il dialogo a due, o in assemblea, è sempre stato lo stimolo principale del suo pensiero». 

    Come ha conosciuto Hillman? 

    «Tutto è nato da una serie di interviste che realizzai per Rai 2 in collaborazione con Giuseppe Scaraffia, alla fine del secolo scorso. Si chiamavano “Interviste di fine millennio”. L’idea era quella di intervistare i grandi pensatori dell’epoca; incontrammo Lévy-Strauss, Ernst Jünger… Per prepararci facevamo scalette precise, che venivano sottoposte agli ospiti e al regista, che così sapeva cosa aspettarsi. Poi intervistammo Hillman. Eravamo all’Istituto di Cultura Italiana a Londra, era una giornata piovosa d’agosto; Hillman era vestito elegantissimo, con un completo di lino bianco e una cravatta azzurra. Non appena iniziò l’intervista, Hillman scardinò la scaletta. Il regista era disperato, ma l’incontro è stato bellissimo. È questo in fondo lo scopo socratico di un dialogo: far cambiare il punto di vista, creare un pensiero nuovo. Quell’intervista fu poi trasformata in un primo libro, L’anima del mondo, uscito per Rizzoli. Naturalmente fu rimaneggiata per mesi e mesi: all’epoca ci scambiavamo continuamente fax da una parte all’altra dell’Atlantico, spesso ci scrivevamo in greco! Questo metodo di lavoro soddisfò molto Hillman, e così ripetemmo l’esperimento con un secondo libro, Il piacere di pensare». 

    Un rapporto che si andava quindi approfondendo. 

    «Sì. Hillman veniva spesso in Italia. Era nato un rapporto di discepolato, un dialogo non limitato alla sola scrittura. È stato forse per questo che Hillman mi chiese di venire a Ravenna assieme a lui e a sua moglie Margot. Fu un viaggio organizzato interamente da lui, a sue spese. Diceva di voler pagare il suo debito a Jung sul tema dell’immagine, che riteneva di non avere esaurito con sufficiente chiarezza. Voleva realizzare un libro monografico sull’immagine, e riteneva che Ravenna fosse il luogo perfetto per farlo. Non c’era mai stato, e insisteva nel non voler assolutamente studiare o leggere niente sui mosaici della città prima della partenza. Cercava un impatto psichico diretto e improvviso con le immagini bizantine. Non voleva nemmeno vederle in fotografia, e nelle chiese mi zittiva quando cercavo di spiegargliele. Voleva sentire con le sue antenne il genius loci della città. Così abbiamo iniziato questo terzo libro, che per lui era molto importante, perché trattava di un tema di cui voleva assolutamente parlare entro la fine della sua vita, che nessuno però immaginava sarebbe stata così vicina». 

    Come ogni libro postumo anche questo è carico di una qualità particolare, tipica di tutte le ultime testimonianze. Partiamo, come nel libro, dal concetto di “crollo” dell’Occidente, che definite anche come “il fallimento universale dell’immaginazione”. Come lo spieghiamo? Si 

    potrebbe ribattere che viviamo in un’epoca satura di immagini. Dunque com’è possibile non immaginare più? E perché Ravenna è importante per ricominciare a immaginare? 

    «È il nucleo centrale del libro. Hillman ha trovato a Ravenna la chiave per risolvere una contraddizione che riteneva sussistere nei suoi scritti precedenti. Da un lato i suoi scritti erano a favore dell’immagine: da seguace di Jung pensava che l’anima fosse fatta di immagini. L’immagine è il medium per raggiungere la profondità dell’inconscio. Lui si professava “iconodulo”, ovvero servo delle immagini. Nello stesso tempo, però, negli ultimi libri, avanzava una critica molto forte a questo bombardamento di immagini pubblicitarie, giornalistiche e propagandistiche. Immagini fatte per sollecitarci, immagini mercificate, che lui chiamava pornografiche, e non necessariamente alla lettera: è pornografico tutto ciò che ci viene inviato in forma di immagine per sollecitarci a un’azione mercificata o consumistica. A Ravenna, rifacendosi alla famosa querelle bizantina sull’immagine, ovvero al dibattito sull’iconoclastia del VII e VIII secolo, ha trovato questa formula per distinguere le vere immagini dalle false: le immagini false sono quelle fatte per sollecitarci a un’azione. Ad esempio: le immagini che vediamo in questi giorni, piene degli orrori della guerra, sono false. Non in quanto tali, ma nella loro funzione, che è quella di portarci, a torto o a ragione, a schierarci politicamente. L’immagine vera è invece quella che ci ferma, che non ci sospinge. L’immagine ferma lo spazio e il tempo, ci porta a guardare qualcosa che è dentro di noi e che in questa immagine si proietta fuori di noi. Sembra astruso ma non è così: se guardiamo un’icona bizantina ci accorgiamo che la stilizzazione dei tratti, chiaramente voluta dall’artista, è fatta per far sì che l’immagine non sia realistica, ma piuttosto un’interfaccia fra la nostra psiche e la rappresentazione che la psiche si fa di una realtà esterna. La verità viene soltanto da dentro di noi. Quello che vediamo del mondo è vero nel momento in cui è passato attraverso la nostra psiche, attraverso la nostra capacità di visione delle cose». 

    Una delle parti più affascinanti del libro è il vostro commento al volto di Teodora. Partiamo da qui: forse la distinzione fra vera e falsa immagine sta nell’intenzione di chi guarda. Quelle stesse immagini “vere”, che oggi vediamo rappresentate a San Vitale e che ci muovono alla riflessione, al tempo erano forme di propaganda bizantina. Non è così? 

    «È verissimo, certamente. Qui si tratta però del modo bizantino di raffigurare più che della funzione di quell’immagine specifica. La Cappella Sistina è un modo di fare propaganda alla visione cristiana dei papi; ma Michelangelo ci comunica, attraverso la sua arte, qualcos’altro. Le immagini “vere” sono capaci di suscitare in noi determinati stati psichici, anche se sono state fatte con una committenza o un obiettivo politico. Anche le icone bizantine sono nate per propagandare le idee monastiche nelle campagne e per plagiare i contadini ignoranti. Il discorso è piuttosto come, e secondo quali regole, l’artista riesce a fornire un’immagine della realtà che non sia esposta alla condanna platonica, ovvero a essere “copia di copia”. Come dice Plotino, l’artista riesce a estrarre da sé degli elementi interiori che riscattano e innalzano l’immagine esteriore verso l’idea, verso l’astrazione pura. L’icona si basa su questi principi: è una forma di verità perché, nella sua stilizzazione, nella sua non-

    volontà rappresentativa del fenomeno, suscita una costruzione psichica dentro di noi. E questa costruzione modifica ciò che vediamo; e poiché non c’è una realtà oggettiva, né per Platone né per uno psicanalista, ma c’è solo ciò che la nostra psiche vede, ecco che l’icona, o l’arte bizantina, fornisce una capacità di astrazione che ci salva, ci cura, e ci mette in contatto con l’inconscio – compito che oggi viene raccolto dall’arte astratta contemporanea. Le immagini possono avere diverse funzioni: quello che conta è se sono vere o false. Pensiamo all’immagine del Papa, da solo, durante il lockdown, in piazza San Pietro. Non era lo scatto di un grande autore, ma aveva in sé qualcosa che ha mosso dentro di noi una grande immagine, più profonda. Lo stesso potrebbe dirsi di quell’immagine della guerra in Ucraina, in cui si vede il Cristo della cattedrale armena di Leopoli in braccio a degli uomini che lo mettono in salvo dalle bombe: una sorta di Passione traslata. Certamente ha uno scopo di propaganda; ma c’è anche qualcosa in più. Tutte le vere immagini possono nascere da istanze contingenti. L’esercizio che Hillman vuole insegnarci è proprio riuscire a distinguere le immagini vere da quelle false; immagini che creano un canale di comunicazione fra noi e la nostra anima, che a sua volta è una particella dell’anima del mondo, e portarci a un effetto terapeutico collettivo». 

    Anche quello di “anima del mondo” è concetto molto antico, viene dal Timeo platonico; ma oggi potrebbe sembrare un po’ new age. 

    «Hillman infatti aveva l’incubo di essere accomunato ai movimenti new age. Hillman proveniva dall’esistenzialismo e aveva una formazione filosofica assolutamente rigorosa, per nulla incline alla religiosità o alla spiritualità intesa in modo magico. L’anima del mondo deve intendersi in senso psicanalitico, come psiche oggettiva, come manifestazione dello spirito del tempo». 

    Ed è forse lo spirito del tempo quello che, guardando l’abside di Sant’Apollinare in Classe, suggerisce a Hillman un collegamento con l’ecologia contemporanea. 

    «Esatto. È incredibile, eppure incredibilmente vero. Di questo parliamo quando parliamo di immagine vera. Uno storico dell’arte bizantina ci direbbe: quel giardino è la Gerusalemme celeste, non c’entra niente il pianeta Terra. Quel mosaico rappresenta l’Eden, siamo fuori dal tempo e dallo spazio. Per Hillman no. Questa è una lettura didascalica, è quello che noi vogliamo far dire all’immagine. Una parola importante per Hillman era de-letteralizzazione: è importante de-letteralizzare le immagini di Ravenna. Se le leggiamo alla lettera, le leggiamo come storici dell’arte. Quello che conta, nell’approccio a un’immagine, è sempre togliere la lettera e vedere che cosa resta. L’inconscio lavora sempre, dentro gli artisti, dentro i committenti e dentro gli spettatori. Secondo Hillman lavorava già allora, proprio perché esistono degli archetipi, delle forme immutabili della psiche collettiva, e il “mondo verde” è una di queste. Alla caduta dell’Impero romano d’Occidente, nel momento del crollo, s’imponeva una visione verde, nel senso di un ritorno alla natura. Proprio nel 

    momento del declino di una civiltà, a livello inconscio questo verde rappresenta un ritorno alla purezza della natura. Anche se davanti abbiamo la Gerusalemme celeste non la vediamo piena di gemme, tesori e baldacchini come avviene in altre iconografie. Vediamo tanto verde. Perché? Ravenna è stata scelta da Hillman proprio per questo, in quanto luogo spazio-temporale della memoria collettiva in cui si condensa quello che lui andava cercando: che cosa produce la psiche dell’uomo in un momento di intensa sofferenza collettiva? Cosa vediamo in un momento di sgomento e smarrimento, nel mezzo del crollo di un sistema a cui non sappiamo cosa seguirà? A Ravenna Hillman ha trovato il verde, la visione del globo azzurro, l’importanza dell’amore per il nostro pianeta. Non si aspettava di vedere tutto questo verde, che effettivamente è una caratteristica molto ravennate». 

    Un altro tema interessante è il genius femminile che Hillman avverte a Ravenna, che collega la città alla storia dell’Impero Bizantino. In che senso Ravenna può dirsi femminile? 

    «Questa idea di accoglienza, incontro e inclusione è un’idea che si lega, anche banalmente, alle caratteristiche femminili. La femmina nidifica e raccoglie, l’uomo distrugge e caccia. Ma la questione è più profonda. Hillman aveva presente le due declinazioni junghiane dell’anima: anima e animus. A Ravenna, in modo quasi rabdomantico, sente molta anima e poco animus. L’aspetto femminile di Ravenna è inevitabile per vari motivi: il primo è la personalità di Galla Placidia, che ha lasciato una sua impronta specifica. Prendiamo il suo Mausoleo – anche se non sappiamo per chi sia stato costruito, certamente la committenza era sua. È presente al suo interno una serie di elementi della “numinosità femminile”, diciamo così, esplicata da simbologie lunari e celesti. Hillman sente la presenza di Vesta e di Afrodite nelle colombe – che letteralmente sono gli apostoli che si abbeverano alla scrittura neo-testamentaria, ma dal punto di vista archetipico rappresentano gli animali sciamanici legati dalla divinità femminile di Venere. L’iconografia di Galla Placidia è un corredo di gentile accompagnamento verso il trapasso dall’uno all’altro mondo, che sia quello promesso dalla fede cristiana appena nata, o che sia quello da una dimensione all’altra della percezione psichica. Ciò è confermato da altre immagini femminili, come quelle di Teodora e del suo corteo, o delle vergini a Sant’Apollinare Nuovo. È sempre presente l’idea di una cerimonialità femminile che si lega all’antica ritualità pagana e misterica. E poi c’è “la dama che visitò Boezio”, nella sua celebre opera De consolatione philosophiae: quella che alla lettera rappresenta appunto la Filosofia che visita Boezio in carcere, prima dell’esecuzione, è per Hillman manifestazione dell’Anima». 

    In un punto del testo Hillman parla del movimento verso ovest della società occidentale, forse rifacendosi alla filosofia della storia hegeliana. L’Occidente, la società razionale e illuministica, si muove verso ovest; l’Oriente rappresenta invece l’ancestrale, l’infanzia mistica che ci siamo lasciati alle spalle, e che ha affascinato schiere di orientalisti e decadenti. Oggi l’Oriente minaccia apertamente l’Occidente: dall’ex oriente lux, all’ex oriente bellum. Più che attirarci, oggi l’Oriente vuole annientarci? 

    «Dall’Oriente è sempre venuto qualcosa che ci ha fatto paura, ma anche qualcosa di ancestrale che ci riguarda e ci pervade. Pensiamo alle origini del mondo greco. Cosa c’è? C’è un impero immenso, orientale, e dall’altra parte un mondo occidentale che cerca di districarsi dalla sua morsa. Nella storia ci sono stati corsi e ricorsi, periodi di gravitazione occidentale o orientale. Hillman condanna la gravitazione occidentale: tutto ciò che viene dopo il Rinascimento, ovvero la rivoluzione scientifica e l’età dei lumi, ha dimenticato l’eredità orientale bizantina. Ritorno a Bisanzio significa tornare a studiare una gravitazione orientale, ovvero il momento di spostamento a est del baricentro geopolitico e culturale, avvenuto proprio durante il crollo occidentale nel IV e V secolo. Hillman, così come Jung, si è molto occupato di Oriente, e ha forse intercettato quello che sta oggi capitando al nostro mondo: ovvero una nuova gravitazione orientale. Oggi è la Cina che ci fa paura. Il “mondo con gli occhi a mandorla”, per dirla come Puškin, che pensava alla Russia come all’ultimo baluardo di difesa contro le stirpi mongole. Questa guerra nasce dalla paura che l’Occidente 

    prova di fronte alla Cina, e mira a creare un fronte occidentale di contenimento per evitare un’alleanza fra Russia e Cina. Credo che la paura dell’Oriente persista, ma una gravitazione orientale è ormai già introdotta. Quante persone oggi lavorano nel mondo Orientale! Quanti aerei pieni di giovani manager si muovono ogni giorno verso Taiwan, Corea, India, Cina, che sono i nuovi centri non solo economici, ma anche di cultura e mecenatismo culturale. C’è una paura diffusa dell’Oriente e una sua minaccia, principalmente economica; ma c’è anche l’invito di Hillman a guardare a quegli elementi dell’Oriente che sono già dentro di noi e che possono elaborare queste paure». 

    Che cosa possiamo imparare, oggi, dalla storia dell’Impero Bizantino? 

    «Moltissimo. Bisanzio è stato il luogo della translatio imperii e continua a essere il luogo cardine di ogni mediazione fra Oriente e Occidente. Studiare quella storia significa capire le cause del presente. Senza conoscere il passaggio dalla prima Roma alla seconda, Bisanzio; e dalla seconda alla terza, Mosca, è difficile capire la mentalità imperiale e cesariana della Russia di Putin, che poi è la stessa mentalità della Russia zarista o staliniana. È difficile immedesimarsi nelle crudeli e inaccettabili giustificazioni russe, secondo cui la costruzione di un protettorato attorno al nucleo della Federazione, anche a costo dell’invasione di un paese sovrano, è un diritto storico; ma ci permetterebbero di non gridare ogni volta al mostro e al pazzo parlando di Putin. E forse ci aiuterebbe a trovare una soluzione alla guerra, che dovrà in ogni caso nascere da un negoziato, se non vogliamo veramente distruggere tutto e tutti». 

    Che cosa si porta dietro dell’incontro con Hillman? 

    «Un grande pensatore lascia sempre un’eredità collettiva. Ma se penso al mio incontro personale, devo dire che Hillman è stato per me un maestro dell’arte del vivere. Sapeva vivere, si godeva la vita. Pur venendo da una visione pessimistica e tormentata dell’esistenza, Hillman era approdato a una concezione non dico vitalistica, ma quasi epicurea della vita. Pagana, appunto. Lui si considerava tale, pagano in senso profondo, di una laicità estrema ma al tempo stesso cosciente del mistero e dell’insondabilità della nostra psiche. Era un maestro pagano dell’arte del vivere, che esercitava filosofando, scrivendo, parlando con gli amici; ma anche amando il buon vino, la buona cucina, i bei vestiti. È stato perciò tanto più precoce e doloroso il fatto che questa vita cessasse all’improvviso. Non era mai stato ammalato in vita sua. Ma anche il dolore e la morte le ha vissute con curiosità e con coraggio pagano. Queste sue doti etiche, nel senso originario del “come vivere”, queste forse sono le qualità che chi ha conosciuto Hillman tiene più vicine alla memoria». 

  • 2022 | “L’Ultima Immagine”. Videoconferenza della Fondazione Grande Oriente con Silvia Ronchey dedicata al filosofo James Hillman

    Silvia Ronchey presenta in videoconferenza, su iniziativa della Fondazione Grande Oriente d’Italia, il volume “L’ultima immagine”. L'opera è frutto dell’intenso dialogo che lo psicanalista e grande filosofo americano di nascita ma europeo di cultura intrattenne dieci anni fa con l'autrice. Introduce il Bibliotecario Bernardino Fioravanti. Le conclusioni sono affidate al Gran Maestro Stefano Bisi.

  • 2021 | Ars Hillmaniana 2021. Per una psicologia immaginale. #1

    Convegno "Per una Psicologia Immaginale - In memoria di James Hillman"

    4 dicembre 2021
    Palazzo della Cultura - Catania

    In occasione del decennale della scomparsa di James Hillman , L''Impa CentroStudi in collaborazione con il Comune di Catania, hanno organizzato questa giornata di studi sul fondatore della psicologia archetipica, invitando alcuni tra i maggiori collaboratori di James Hillman. Silvia Ronchey, Riccardo Mondo, Luigi Turinese, e in collegamento da casa Hillman , la sua compagna , l'artista Margot Mc Lean e il regista Enrique Pardo da Parigi. Nell' occasione sono stati presentati i volumi "L'ultima immagine di James Hillman e Sivia Ronchey" ( ed. Rizzoli ) e "Caro Hillman . Venticinque scambi epistolari con James Hillman", di Riccardo Mondo e Luigi Turinese ( ed. LSWR )

  • 2021 | Ars Hillmaniana 2021. Per una psicologia immaginale. #2

  • 2021 | Seidisera Magazine, RSI. Silvia Ronchey “L’ultima immagine” James Hillman

    Silvia Ronchey ospite di SEIDISERA Magazine, lo spazio di seconda lettura della Radiotelevisione svizzera RSI.
    Riflessioni su temi di attualità e sul vivere. In studio Michela Daghini.

     

  • 2021 | Il posto delle parole. Silvia Ronchey “L’ultima immagine” James Hillman

  • 2021 | Ricordo di James Hillman a dieci anni dalla scomparsa. Jung Italia

     

    L'IMPA CentroStudi promuove un ricordo di James Hillman e del suo straordinario contributo alla contemporaneità, a dieci anni dalla scomparsa.
    Emanuele Casale intervista Silvia Ronchey, Riccardo Mondo e Luigi Turinese.

Stampa (7)

  • La Repubblica | 15/10/2021 | Hillman dopo Hillman, James Hillmann e Silvia Ronchey

    Silvia Ronchey: Secondo la frase di Keats che citi sempre, il mondo è «la valle del fare anima».
     

    James Hillman: Dobbiamo immaginare quella terribile dispersione del mondo. È l’idea da cui voglio partire. Essere qui, a Ravenna, nel momento della più acuta fantasia di crollo del nostro tempo, immaginandoci nel quinto secolo. Qualcosa di molto più profondo di ciò che accade ora a Wall Street (durante la crisi del 2008 ndr). Che è un fenomeno macroscopico, ma non è tutto, vero? È solo una parte della fantasia archetipale dell’occidente che 

    sta crollando. Ricorre così spesso nella nostra storia la fantasia della fine del mondo. Il mondo di oggi offre un contesto storico perfetto all’idea di fine. È il sentimento do- minante della nostra epoca. E allora tutto quello che vedremo qui a Ravenna dovrà essere l’indizio di una detective story, un indizio da sfruttare per dedurre che cosa, invece, resta. Che cosa continua. Che cosa c’è da imparare? È questo che voglio come apertura del libro. E voglio sia chiaro da subito che questa è la domanda: cosa possiamo imparare? È per questo che dobbiamo capire quali immagini gli esseri umani di allora hanno usato per contrastare l’ansia della fine in quel momento di gigantesca distruzione. Quali? 

    [...] 

     

    J.H. Quella che rimane più fortemente impressa in me è l’immagiNe del globo blu. L’abbiamo vista due volte, ed era in tutti e due i casi al centro del mosaico dell’abside. 

     

    S.R.: Una è qui, a San Vitale. La teofania del Cristo Cosmocratore, al centro del catino absidale. È ispiRata al versetto dell’Antico Testamento che recita: «Il cosmo è il mio trono, e la terra sgabello per i miei piedi». Quello che chiami il globo azzurro, quindi, è simbolo dell’universo, del cosmo. 

     

    J.H.: E l’altra era di nuovo un globo blu, ma all’interno di un mondo molto verde. 

     

    S.R.: Nella Trasfigurazione di Sant’Apollinare in Classe. Il grande disco blu che sovrasta la natura ver- de e circoscrive un cielo stellato. 

     

    J.H.: Il globo azzurro sopra il gregge immerso nel verde. Un’immagine meravigliosa. Di tutte quelle che abbiamo visto, è quella che rivedo di più. Ne visualizzo anche altre quando ci penso, ma questa è l’immagine che mi viene immediata, che tengo dietro le palpebre, subito al di qua degli occhi. \ Quello del globo blu è un simbolo molto attivo nella psiche odierna. Quando gli astronauti, anzi un astronauta in particolare, l’ho conosciuto a un convegno, quando ha guardato fuori e ha visto la Terra, gli è apparsa come un globo azzurro ed è stata per lui un’esperienza assoluta, mistica. 

     

    S.R.: Una sensazione di bellezza ma anche di fragilità. Il nostro pianeta, oggi lo sappiamo bene, è fragile. 

     

    J.H.: Quello che voglio fare è ricollegarmi all’idea di Jung. Il quale, dopo avere vi- sitato il Mausoleo di Galla Placidia, ha avuto nel Battistero degli Ortodossi una visione che lo ha connesso con il suo sé o comunque vogliamo chiamarlo. Alla visione di Jung io contrappongo quella dell’astronauta, che ne rappresenta il rovesciamento copernicano: vedere improvvisamente la Terra, nella sua bellezza, come cosmo. È stato decisivo per lui e dopo di lui per moltissimi, considerato l’enorme uso che è stato fatto di quell’immagine, sulle copertine delle riviste e dei libri, ovunque. Il globo blu. Questo è ciò che dev’essere protetto. È la nostra madre, è la nostra sacra terra. È il nostro pianeta. È la nostra diversità. Non siamo Marte, né Venere, né Mercurio, non siamo la luna. Quei corpi celesti sono tutti aridi, sterili. Mentre il nostro è un prezioso, acquoso mondo azzurro. 

    E davanti a quest’immagine si staglia la nostra più profonda istanza ambienta- le. Più profonda, perché non riguarda la sostenibilità o la riorganizzazione economica o le emissioni dei gas serra, non atti- va il tipo di linguaggio al quale siamo abituati. Ci parla nei termini di un’esperienza quasi religiosa della bellezza. Il mondo è così bello, dobbiamo lasciarlo fiorire. Ci sono campi verdi e animali. È ciò che videro gli artisti che usarono quella stessa immagine a Ravenna. La dolcezza e bellezza del mondo in cui tutti coabitiamo, pecore e santi, genti e natura. 

    E credo che questa sia la sola vera motivazione a salvare la Terra che possa diventare collettiva. È la più forte delle motivazioni perché tutte le altre sono economiche o tecnologiche ma non toccano l’anima nello stesso modo. La visione dei mosaici dell’abside della basilica di Sant’Apollinare in Classe ha un potere motivazionale che la ratio del «dobbiamo continuare a sopravvivere» non ha. La bellezza è un’istanza molto più potente per- ché la bellezza evoca l’amore. Questo dice Platone. 

     

    S.R.: Nel Simposio, nel dialogo tra Socrate e Diotima, o nel Fedro, quando parla dell’anima che «in terra sta smarrita, palpitando co- me un’arteria che non trova la propria apertura, ma appena vede la bellezza è invasa dall’onda del desiderio amoroso e le si sciolgono i canali ostruiti e prende respiro». Ma anche nella dottrina del sufismo, che del resto è uno sviluppo di quella platonica e neoplatonica, bellezza e amore sono i primi due elementi della triade cosmogonica. Pensiamo a Sohrawardi. 

     

    J.H.: Ma, più semplicemente, lo sappiamo tutti. Quando ci innamoriamo, la persona di cui siamo inna- morati appare bella. E può non essere così, il suo aspetto in sé può es- sere tutto fuorché bello, ma noi vediamo bellezza. E quando vediamo bellezza in qualcosa, la amiamo. Il nostro amore si dirige lì. Le due cose sono intimamente connesse. E questo è platonico. Bellezza e amore non possono separarsi. E quando perdiamo il senso della bellezza di qualcosa, ci disamoriamo. È sempre così. E questo significa che se vogliamo preservare il pianeta dobbiamo vedere la sua bellezza, perché se la vediamo ce ne innamoriamo.  E se ci innamoriamo della Terra, non vogliamo farle del male. Vogliamo tenerla stretta. La prima cosa che vogliamo fare a ciò che amiamo è proteggerlo, stringerlo a noi, aiutarlo.  E questa è una motivazione completa- mente estranea alla sfera economica, o a quella dell’espiazione, del senso di colpa per quanto abbiamo fatto in passato. No. Non toccatela. È questa l’istanza che va dritta al cuore. Ed è un’istanza che ho visto su quel muro, in quel globo blu, nei prati verdi di quel paradiso. 

     

     



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  • Robinson - La Repubblica | 16/10/2021 | L’immaginazione al potere, James Hillmann e Silvia Ronchey

    S.R. – Che cos’è un’immagine?

    J.H. – Eccoci alla domanda fondamentale. Se capissimo cos’è un’immagine, ci libereremmo da ciò che oggi pensiamo siano le immagini. Che non sono immagini vere, intere: sono immagini fratturate, immagini vicarie, disperse, frantumate, come se ci trovassimo davanti a un mosaico scomposto. Abbiamo centinaia di tessere, nessuna delle quali è l’immagine. Tutte testimoniano l’esistenza di un’immagine dalla quale sono cadute. Tutte recano in sé la possibilità di essere in qualche modo messe insieme, come facevano i grandi mosaicisti. Come facevano? Come riuscivano a trarre da quelle centinaia di pezzetti di pietra un’unica figura, così imponente, commovente, bella, spirituale?  Il fatto è che avevano dentro di sé un’immagine. Era l’immagine interiore che creava ciò che scorgiamo come entità visibile. Vorrei ricordare en passant che Michelangelo parla di questo quando usa il termine ‘immagine del cuor’.

    S.R.  — Stai citando una delle poesie di Michelangelo:  “Amor, la tua beltà non è mortale:/  nessun volto fra noi è che pareggi / l’immagine del cor, che ’nfiammi e reggi / con altro foco e muovi con altr’ale”.

    J.H. – E’ un’immagine che è del cuore o che è nel cuore. Come se l’artista, nel fare un ritratto, nello scolpirlo, attingesse l’immagine dal cuore dell’individuo che stava rappresentando. Cosicché, diciamo, la faccia visibile, la sembianza che ne risultava, era in realtà il carattere o l’essenza dell’anima. Credo quindi che la vera immagine sia quella della forma interiore, della forma psichica, della forma dell’anima. Una forma che tenendo insieme le varie visibilità dà profondità al visibile, lo fa diventare visibilità dell’anima. Ed è qualcosa che abbiamo perso. Abbiamo confuso l’immagine con il visibile.

    S.R.  — Con la parvenza: l’eidolon…

    J.H. –  … se vogliamo dirlo con Platone. Pensiamo alle immagini nella loro sola manifestazione materiale, come se coincidessero con la parvenza visibile, mentre la mente antica riusciva a vedere la figura dietro le tessere del visibile. L’immaginazione degli antichi era connessa al cosmo. Riuscivano a leggerlo. A scorgere nel cielo figure invisibili all’occhio.  Per Plotino l’artefice di un’immagine, nel crearla non deve “gettare lo sguardo su alcun modello sensibile, ma immaginare”.

    S.R. — Nel caso di una divinità, “immaginarla come sarebbe se acconsentisse ad apparire ai nostri occhi”, e cioè secondo una verità interiore che è un riflesso dell’intelligibile, il quale è peraltro, in termini platonici, l’unica realtà.

    J.H. –  Quindi occorre fare attenzione alle parole. Usare la parola immagine solo per quella che ho chiamato in latino figura, e contrapporla alla facies, alla faccia. Michelangelo non si limitava a riprodurre la faccia di qualcuno. Ne evocava l’immagine, ossia, per così dire, rappresentava l’essenza della persona. 

    S.R. – E così facendo si riaccostava alla dottrina platonica e neoplatonica, da cui l’arte occidentale, nel suo accentuare e perfezionare il realismo naturalistico, si era già molto prima di Michelangelo allontanata, e che era stata invece portata alle estreme conseguenze a Bisanzio Se guardiamo le icone bizantine vediamo un’immagine dall’apparenza molto elementare, che spesso da noi oggi viene percepita come un’arte meno avanzata, meno perfetta, per la semplicità del disegno, ma la cui imperfezione è voluta, perché …

    J.H. –  … perché ciò che importa veramente è ciò che sta dietro e che non è visibile. Non visibile attraverso gli occhi. 

    S.R. – Il che richiede una grande disciplina. Ma è questo il retto sguardo con cui guardarla. Lo sguardo teorizzato dai teologi e dai filosofi bizantini, secondo cui l’immagine dev’essere una via per riattivare il contatto con la nostra anima, per attivare una diversa energia psichica.  

    J.H. –  Risvegliare un altro occhio per vederla.  O per esserne visti. L’icona è stasi. E’ statica. Arresta. Ha il compito di concentrare, focalizzare. Ora, ecco un’idea. San Tommaso d’Aquino dice che la bellezza interrompe il movimento. Joyce ha ripreso questa concezione tomista. Per lui ogni immagine che promuova il movimento, l’azione, è pornografica. Potremmo anche definirla propagandistica, nel momento in cui ci spinge a fare questa o quella cosa. Mentre l’immagine vera è statica, arresta il movimento. E’ sospensione. La vera immagine ci guarda. Che cosa fa alle nostre emozioni il suo guardarci? Perché ci fermiamo davanti alla staticità dell’immagine? E’ un effetto Medusa? Qual è l’effetto della stasi dell’icona sulla psiche, sull’emozione? Perché c’è un’intenzionalità nel suo sguardo che ci inchioda, in quegli occhi, quegli occhi, in quell’oscurità sotto gli occhi che in qualche modo si impadronisce di noi. Questo è ciò che mi ha insegnato Bisanzio. Mi ha insegnato che c’è un’immagine più profonda dell’immagine visibile. Che sotto, anzi no, non sotto, dentro, all’interno di ciò che è in mostra, della presentazione dell’immagine, c’è l’immagine invisibile. Ed è l’immagine invisibile che ci guarda mentre guardiamo l’immagine visibile. Ma perché l’immagine invisibile ci guarda? Guardo l’immagine visibile perché voglio essere colpito, o già lo sono, dalla sua bellezza. Guardo l’immagine visibile per apprendere qualcosa delle dinamiche e dei gesti necessari a comporre un’immagine. Imparo arte dall’immagine visibile. Ora, è possibile? Ti sembra corretto?

    S.R. — Sì, direi di sì.

    J.H. –  Dici di sì? Ma perché allora l’immagine invisibile vuole guardare me? Chi sono io per essere guardato? Vuole guardarmi, ed è questa l’imperscrutabile bizzarria del funzionamento dell’immagine, la sua frastornante indecifrabilità. L’immagine deve, in qualche modo, imparare da me. Forse vuole vedere il mondo come io lo vedo? Ma il mio modo di vedere il mondo è stupido, quindi perché vuole impararlo da me? Che cosa mai può imparare? Credo che impari — ah (sospira), credo che impari le vie della tristezza, le vie di chi è caduto, le vie dell’irredento, ed è perciò che fa emergere dal retroscena quel che vi si cela, qualunque cosa sia. Credo che porti compassione all’anima del mondo. La infonde, induce l’anima del mondo ad avere compassione del mondo. Se il mondo non fosse sentito come incompleto, o come irredimibile, non mostrerebbe la sua eterna tristezza, il pianto di Sophia. Non la esalerebbe; resterebbe del tutto freddo. Quella tristezza è necessariamente intrecciata al mondo, è il suo primum, il suo attributo primo.

    S.R. — Questo è gnostico, James.

    J.H. –  E’ molto importante che il mondo possa sempre essere sentito nella sua intrinseca patologia. Non mi piace l’idea che tutto sia redimibile. Credo che in quell’idea stia l’inferno. In altre parole, non mi piace l’idea di una salvezza universale o comunque di una possibilità di salvarsi in un modo o nell’altro.

    S.R. — Sempre più gnostico, anzi manicheo.

    J.H. –  C’è una tenebra. Sì, e devo dire che mi conforta sentirla. Quando mi interrogo, devo rispondermi che c’è.

    S.R. — Quindi è una tenebra che senti dentro di te come fuori di te?

    J.H. –   E’ data con l’universo.

    S.R. — In che senso?

    J.H. –  Con il cosmo, non con l’universo, con il cosmo. La tenebra è intrecciata al cosmo. Non lasciarlo fuori, scrivilo.

    S.R. — Lo sto facendo.

    J.H. –  Non bisogna pensare che tutto possa essere salvato, che è l’idea cristiana, e io non sono un cristiano. Noi non sappiamo che cosa possa essere salvato e cosa no e su cosa sia follia applicarsi. Ma io mi ci applico. E mi piace farlo. Mi piace ancora.

    […]

    Non è questa, alla fine, la grande domanda, che Henry Corbin non si è stancato di porre, che cosa è successo all’immagine nel nostro tempo? Che cosa è successo da quando le immagini erano il segnavia della conoscenza e della verità? Da quando erano portatrici di santità, recavano in sé una tale importanza da costituire il dispiegamento della bellezza in quanto tale, e da non poter essere pertanto in alcun modo eluse o svilite? Erano rivelazione. Ma quale immagine nel mondo di oggi si può definire così? Quella che andiamo a vedere al cinema? Quella che guardiamo in tv il sabato sera? C’è un’immensa discrepanza tra queste immagini e quelle che possono dirsi, in un certo senso, sacre, rivelazioni, come le ho definite un momento fa. Ma vorrei riprendere il concetto di verità e bellezza. Ho usato poco fa entrambe queste parole.

    S.R. — Sì. Le immagini come segnavia per la conoscenza della verità e il dispiegamento della bellezza.

    J.H. –  E allora come posso io, mentre sto morendo, parlare di immagini, o dell’immagine, o di un’immagine come rivelazione della verità? Che cosa sanno le immagini? Che cosa non sanno? Perché vengono a noi? Come possono le immagini che mi circondano guidarmi alla verità o alla bellezza o a qualsiasi cosa, quando sono inondato da un caos di immagini? Ma sono effettivamente immagini? Che cosa sono?

    S.R. — Forse sono quelle che abbiamo chiamato a Ravenna immagini facili, false, ingannevoli?

    J.H. –  Preferisco usare la parola “cadute”. Ma “cadute” implica perfettibilità. […]  Le immagini vere sono quelle che non sollecitano l’azione. Sono false quelle che la sollecitano. Il che varrebbe a dire che tutte le immagini che non siano ipnotizzate dalla morte o che in qualche modo non la incorporino — non so quale parola usare qui — sono immagini false. Questa sarebbe l’idea. Ma come formulare quest’idea in modo che dia senso?

    S.R.  — Forse usando la persuasione dell’icona, il suo mostrarci che l’immagine più profonda è celata e deve essere immaginata?  Il potere sulla psiche della sua stasi, della morte-in-vita che le leggiamo negli occhi? Hai sostenuto molte volte che per essere vivi ci serve la morte. Una tua celebre frase afferma che una vita o una società che non tenga vicina la morte è moribunda, morente.

    J.H. –  Morente! Ah, proprio come me! [Ride]. In realtà c’è una commistione delle due, non c’è una linea di demarcazione. Tant’è vero che in questo enigma approdiamo a un luogo in cui non sappiamo dove siamo.

    S.R. — L’enigma dell’icona?

    J.H. –  Anche quest’altro enigma, che mentre sono qui steso nel letto e parlo con te, cerco di decifrare per capire, per scoprire dove tracciare la linea di demarcazione tra vita e morte se mi venisse chiesto di tracciarla. E’ nel parlare? È nel respirare? O in che cos’è? Nel sognare? Questa è la domanda.

     

     



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  • LaVerità | 23/10/2021 | Hillman e la missione impossibile di por…, Marcello Veneziani



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  • Corriere di Arezzo | 29/10/2021 | Nel libro 'L'Ultima Immagine' l'eredità …, Claudio Bianconi



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  • Il Foglio | 18/11/2021 | Hillman l'italiano, Nicoletta Tiliacos



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  • Alias - Suppl. de il Manifes… | 05/12/2021 | A Ravenna, James Hillman salda il suo de…, G.S.



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  • Corriere di Bologna | 22/12/2021 | Nell'abisso dei mosaici, Massimo Marino

    James Hillman, l'innovatore della psicologia analitica di derivazione junghiana, autore di libri che tanti hanno amato come Il mito dell'analisi, Revisione della psicologia, Il codice dell'anima, se n'è andato da questa terra nel 2011 (era nato nel 1926). Dopo una vita passata a smontare la psicoanalisi come tecnica di dominio, usando strumenti conoscitivi provenienti anche dalla filosofia e dalla letteratura, dopo folgorazioni nell'interpretazione dei miti che costituiscono la nostra dimensione immaginale, che nutrono la nostra anima, in relazione con l'anima mundi, per «fare anima», riappare in libreria con un volume postumo sui mosaici di Ravenna, scritto con Silvia Ronchey ne­ gli ultimi giorni di vita, nella sua casa a Thompson nel Connecticut. Si intitola L'ultima immagine (Rizzoli, 264 pagi­ ne, euro 19) e parte da un viaggio a Ravenna insieme con la studiosa, docente di Civiltà bizantina all'Università di RomaTre, con cui aveva già pubblicato alcuni libri intervista. Racconta la moglie di Hill­ man, Margot McLean: «Nel settembre del 2008 James voleva approfondire il suo pensiero sull'immagine ed ebbe l'idea di fare un viaggio a Ravenna per vederne i mosaici. Contattò Silvia a Roma e tutti e tre partimmo in auto per Ravenna, dove passammo giorni a camminare, pensare, parlare, commentare incessantemente quello che avevamo appena visto, anche nelle pause che ci concedevamo sedendo a sorseggiare un espresso o un bicchiere di vino».
    Il filosofo, l'analista dell'anima, sente che per completare la sua opera, per rispondere alla domanda «Cos'è l'immagine?» deve visitare dal vivo i mosaici ravennati, annotare le reazioni emozionali che suscitano. Siamo nel 2008, l'anno del crollo di Wall Street per il crack di Lehman Brothers. E Ravenna diventa, con le sue bellezze, la mappa di un altro crollo, quello dell'Impero romano d'Occidente, momento di sconvolgimenti e mescolanze di culture. Quel crollo, celato negli splendori del Battistero degli Ariani e in quello degli Ortodossi, in Sant'Apollinare Nuovo e in Classe, in San Vitale, diventa l'oggetto di una ricerca che non può essere che dal vivo. Annota ancora la moglie: «In quel luogo di eccezionale bellezza e mistero si potevano avvertire tutti e cinque i sensi risvegliarsi come da un coma, e farsi più vigili e acuti».Il libro è costituito dai dialoghi di quei giorni, intercalati da conversazioni sul letto di morte di Hillman, che se ne andrà pochi giorni dopo la partenza di Silvia Ronchey da Thompson. Diventa anche un trattato sull'ars moriendi di questo saggio, qualcosa «Che lo avvicina agli exitus dei grandi antichi, da Seneca a Petronio e a tutti quegli altri sapienti che morirono "con arte" perché morirono "pensanti"» scrive Ronchey nell’introduzione. Le scrive Hillman nella sua ultima mail: "Sto morendo, ma non potrei essere più impegnato a vivere". Nelle conversazioni Hillman osserva Ravenna come "un luogo della storia e della geografia della psiche" (Ronchey), momento di incrocio tra cristianesimo, cultura greco latina e mondo barbarico. Nel Battesimo di Cristo della cupola del Battistero degli Ariani vede una sopravvivenza dei caratteri del dio Dioniso. Nel Corteo delle Vergini di Sant'Apollinare Nuovo scorge caratteri femminili che richiamano i riti eleusini o le decorazioni muliebri della Villa dei Misteri di Pompei.Nel Mausoleo di Galla Placidia legge il cosmo e le stelle, l'acqua e il fuoco di cerimonie pagane, i cervi cari a Diana e le colombe sacre a Venere. Soprattutto sconvolgente è l'analisi del ritratto musivo dell'imperatrice Teodora, con un volto segnato, con occhi che perforano con la loro fissa immobilità, rimandando altrove. Qui il discorso si fa in calzante: questa immagine non è idolo, rappresentazione di caratteri esteriori, come quelle che ci bombardano nella vita contemporanea, fuggevoli, ingannevoli, pubblicitarie, inessenziali. Rimanda a qualcosa di profondo, a un'anima individuale in corrispondenza con l'anima del mondo, modello sotterra neo delle immagini fenomeniche, qualcosa che ci spinge a immaginare. Cita Platone e Plotino e i procedimenti del l'alchimia, sul disfarsi del di di suo rinnovarsi. Quindi punta l'attenzione, osservando Sant'Apollinare suo rinnovarsi. Quindi punta l'attenzione, osservando Sant'Apollinare in Classe, sul prato dell'Abside, la "Grande immagine verde", una natura paradisiaca, da difendere, figura usata contro le distruzioni di quel Medioevo.Molti altri sono gli spunti di un libro che canta la pluralità (pagana) contro ogni dogmatismo. Cos'è, però, alla fine l'immagine? La capacità di "immaginare", di leggere la figura, l'immagine interiore, oltre le sembianze, rivalutando anche, in questo senso "laico", l'iconoclastia bizantina, il rifiuto dell'immagine esteriore.



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Segnalazioni Stampa (7)

  • ITALO I SENSI DEL VIAGGIO | 02/11/2021 | L'ultima immagine, Dario Morciano



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  • Corriere della Sera | 23/07/2022 | A Silvia Ronchey il Viareggio per la sag…, Redazione



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  • Il Resto del Carlino | 23/07/2022 | Silvia Ronchey premiata per la saggistic…



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  • Libero | 23/07/2022 | Alla Ronchey il Viareggio per la saggist…



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  • Il Secolo XIX | 23/07/2022 | Rèpaci, Ronchey vince per la saggistica



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  • Avvenire | 23/07/2022 | Il Viareggio di saggistica a Ronchey



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  • La Repubblica | 23/07/2022 | A Silvia Ronchey il premio Viareggio - R…

    A Silvia Ronchey il premio Viareggio - Rèpaci per la saggistica



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