Nel cuore di Roma come una reliquia santificata dalla sua gente
La traslazione del feretro verso la basilica di Santa Maria Maggiore attraverso Roma tra due ali di folla, lacrime, fiori e l’abbraccio di detenuti, trans e migranti ad accoglierlo. E tra migliaia di cellulari accesi per fissare l’attimo come per ricevere
Articolo disponibile in PDF
Sono stati centocinquantamila cellulari accesi ad accompagnare il vecchio papamobile Dodge Ram 1500 messicano adattato per l’occasione lungo i sei chilometri delle vie di una Roma storica divenuta improvvisamente ordinata, efficiente, servizievole, come per obbedienza a un improvviso, collettivo imperativo interiore: da San Pietro al Gesù, dov’è la tomba di sant’Ignazio, dall’Altare della Patria lungo i Fori Imperiali fino al Colosseo, da via Labicana, sfiorando san Clemente, fino a Santa Maria Maggiore, molto più velocemente che a passo d’uomo nonostante le iniziali attese, tra applausi e lanci di fiori, ma soprattutto profluvi di post e di selfie. Così la devozione popolare ha salutato Francesco, ripetendo un rito apparentemente nuovo nella sua forma ma antichissimo.
Quando nella settimana di Pasqua del 1462 Enea Silvio Piccolomini, alias Pio II, guidò per le vie di Roma il grande corteo per la traslazione della reliquia del teschio di sant’Andrea, l’apostolo fratello di Pietro, le strade erano strette e non selciate, attraversate da vacche, pecore e capre, piene di fango. Nei quartieri dell’aristocrazia, dove gli edifici erano più fitti e alti, le famiglie nobili avevano gettato tappeti per coprirlo. Si procedeva a passo d’uomo. Il papa aveva vietato che si usassero cavalli. Tutti, anche i principi della chiesa, dovevano percorrere a piedi, lentamente, i duemila passi del percorso. Lungo il quale, osservò il papa nel racconto che ne fece nei suoi diari, i Commentarii, i ranghi erano così compatti che un chicco di grano buttato in mezzo non sarebbe caduto a terra. Mai, neppure per il giubileo del 1450, erano arrivati in tanti e di tante nazionalità: tedeschi, francesi, ungheresi fra gli altri, e tutti i leader italiani, oltre al popolo della città di Roma. Quando la processione passò sul ponte di Adriano furono contate trentamila candele ardenti.
Non candele oggi, ma cellulari. C’è chi ha deprecato, analizzando la gestualità e la prossemica dell’immenso popolo che ha fatto ala al moderno corteo, l’apparente mancanza di tristezza, di compostezza e delle altre manifestazioni tradizionali del lutto. Lo sguardo rivolto al corteo funebre attraverso lo specchio dei telefoni anziché direttamente faccia a faccia, nella tersa luce primaverile, è parso ad alcuni confermare lo smarrimento di una dimensione propriamente collettiva, di una partecipazione condivisa, denunciare il dominio di un nuovo individualismo, di un nuovo cinismo dell’essere umano contemporaneo, così preso da se stesso da essere poco toccato perfino dalla morte.
Ma il punto è che per il suo popolo Francesco non è morto. Ed è proprio questo che, sopravvivendo a se stesso, da vero seguace di Loyola, con la forza di una disciplina interiore ferrea (o della grazia, per chi è credente), Francesco ha voluto mostrare. Ha trasformato se stesso in reliquia ancora in vita. E come il passaggio di una reliquia il suo per le vie di Roma, oggi come nel Quattrocento di Enea Silvio, è stato sentito. Non un corpo morto su cui piangere, ma l’emanazione di una forza benedicente dai cui potenti effluvi, nella brezza di primavera, farsi investire. “C’ero, ero qui”, hanno significato quei post, quei selfie, quei cellulari alzati come ceri ardenti. “Sono qui e sono benedetto” dal ricordo, dal simbolo, da tutto quello che ha incarnato Francesco che nella carne non è più, ma si è fatto materia sacra.
Le sue successive traslazioni hanno congiunto, passando per la basilica di San Pietro, due luoghi altamente simbolici per la visione di un papa che aveva deliberatamente evitato di abitare il palazzo vaticano. Presentandosi come vescovo di Roma, aveva fatto intendere fin dall’inizio, subito dopo quel “buonasera” con cui si era rivolto ai fedeli dalla finestra appena dopo la sua elezione, che sarebbe stato il papa del popolo e non della curia. Come il suo Laterano sarebbe stato Santa Marta, così la sua tomba non è stata nelle Grotte Vaticane, ma in quell’antichissima basilica di Roma che è la sola ad avere conservato la primitiva struttura paleocristiana e che fu dedicata alla Theotokos subito dopo che il concilio di Efeso nel 431 ne aveva accolto la maternità divina; accanto all’icona bizantina della Salus Populi Romani, dipinta secondo la leggenda dalla mano di san Luca, che Francesco aveva voluto esposta nei tempi della peste come lo era sempre stata nella storia della devozione del popolo di Roma e sotto la cui protezione aveva posto i suoi viaggi apostolici, facendole visita prima della partenza e dopo il ritorno e così rifacendosi alla tradizione della Compagnia di Gesù, che di quell’icona aveva sempre promosso il culto e distribuito multipli in giro per il mondo.
La scelta di questi due poli di permanenza ante e post mortem — Santa Marta, Santa Maria Maggiore — non va quindi attribuita soltanto alla sobrietà francescana del pontefice o soltanto alla sua devozione mariana. C’è il sottotesto di un papa che oltre a essere un grande comunicatore politico era un grande intellettuale ecclesiastico, e, come tutti i veri sapienti, racchiudeva un manifesto culturale leggibile ai pochi in ognuno dei messaggi che a parole e a fatti rendeva ai più, inclusi quei “poveri” (nel senso evangelico della parola), quei senza fissa dimora, detenuti, migranti, transgender, che lo hanno accolto sulla soglia dell’antica basilica con una rosa bianca in mano alla vigilia del mese delle rose, il maggio mariano.