Il suo nome fu anche Tristano, contemplò il deserto della vita
TTL - Cl@assici | Giacomo Leopardi vedeva le cose esattamente al contrario rispetto al suo secolo, così fiducioso nel progresso; pensava che gli uomini, deboti e vigliacchi, opportunisti e meschini, adorano illudersi
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Giacomo Leopardi, il cui nome fu anche Tristano, era nato in un secolo di grandi scoperte: la felicità della vita, la perfettibilità indefinita dell'uomo, la bontà delle masse. Anche il suo borgo sperduto era assediato da grandi certezze: che la specie umana andasse migliorando ogni giorno, che il sapere aumentasse continuamente, che il suo secolo fosse superiore a tutti quelli passati, che i giornali, uccidendo ogni altra letteratura e ogni altro studio noioso e spiacevole, fossero maestri e luce del presente. Tuttavia fin da bambino Giacomo Leopardi invidiava i morti, e avrebbe fatto a cambio solo con loro.
Giacomo era affetto da una strana infermità o deformità della vista. Vedeva le cose esattamente al contrario rispetto al suo secolo, come in un binocolo rovesciato. La vita gli pareva una gran brutta cosa e rideva del genere umano che ne era, diceva, innamorato come un marito pigro di una moglie che vuole a tutti costi credere fedele. Perché gli uomini, diceva, sono vigliacchi, deboli, opportunisti e meschini, e adorano illudersi. Non crederanno mai né di non sapere nulla, né di non essere nulla, né di non avere nulla da sperare.
Giacomo invece, malato o sano che fosse, detestava la vigliaccheria, rifiutava ogni consolazione e ogni inganno puerile e aveva il coraggio di sostenere la privazione di ogni speranza, di contemplare intrepidamente il deserto della vita, di non dissimularsi nessuna parte dell'infelicità umana e di accettare tutte le conseguenze di una filosofia dolorosa ma vera. Anche se tutti se ne scandalizzavano come di una cosa nuova e mai sentita, quella filosofia non era di sua invenzione. Era dell'Ecclesiaste e di Omero, di Teognide, secondo cui l'uomo è il più miserabile degli animali ed è meglio non nascere e per chi è nato morire in culla, e di Menandro, secondo cui è caro agli dèi chi muore giovane. L'aveva trovata nella grande biblioteca del palazzo di campagna in cui era cresciuto. Fin da bambino infatti Giacomo si era dedicato ai libri degli antichi ed era diventato un grecista e un bizantinista in polemica coi suoi contemporanei.
Questo secolo, diceva Giacomo, è un secolo di ragazzi, e i pochissimi uomini che rimangono si devono andare a nascondere per la vergogna. Anche la mediocrità è diventata rarissima: quasi tutti sono incapaci, quasi tutti inadeguati ai loro esercizi o compiti. Tutti vogliono essere tutto, e tale è il rumore e la confusione che non si fa nessuna attenzione ai pochi grandi, che nell'immensa moltitudine dei concorrenti non riescono più ad aprirsi una via. Così, mentre tutti i peggiori si credono illustri, l'oscurità e la nullità dell'esito finale sono il destino comune degli ultimi come dei primi.
I libri di oggi, diceva, per lo più si scrivono in meno tempo di quanto ne serve a leggerli, e poiché costano quello che valgono, durano in proporzione. Troppi libri, diceva, buoni, cattivi, mediocri, escono ogni giorno, e necessariamente fanno dimenticare quelli del giorno prima. La sorte dei libri oggi è come quella degli insetti chiamati effimere. Alcune specie durano poche ore, alcune una notte, altre tre o quattro giorni. Ma sempre di giorni si tratta.
IL LIBRO
Giacomo Leopardi, Discorso in proposito di una orazione greca. Orazione di G. Gemisto Pletone in morte della imperatrice Elena Paleologina, a cura di Moreno Neri, Raffaelli Editore, 65 pp., 10 euro