Lucrezio: quanti vani desideri, il più tormentoso è l'amore
Gli uomini, osservava, stanno sotto un peso ignoto che li stanca: non sanno cosa vogliono, cercano inquieti un luogo diverso dal solito dove deporre il loro peso di noia e di nulla
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Tra il sesto consolato di Mario e la dittatura di Silla, in anni di stragi e di terrore, apparve Tito Lucrezio Caro, all'ombra del portico nero di una remota casa di montagna. Come le fazioni insanguinate di Roma, con le loro torme di clienti armati e oltraggiosi, così Lucrezio contemplava il turbinare di sciami di atomi tinti dello stesso sangue, a disputarsi un'oscura supremazia.
Lucrezio sapeva che la dissoluzione della morte non è che l'affrancamento da quell'orda turbolenta che si precipita verso mille altri movimenti inutili. Che l'anima e il corpo hanno vita solo finché congiunti, e l'uno non può sopportare il distacco dall'altra senza disfarsi in un putrido miasma, e l'anima uscita dal petto si perde e svanisce come fumo: non solo non può sopravvivere in eterno, ma neppure un solo istante. Se l'anima fosse immortale, il moribondo si sentirebbe scivolare dalla pelle come un serpente e non dovrebbe avere paura della morte. E invece sente chiudersi la gola, dissolversi i cinque sensi, è in preda al terrore e si aggrappa alla vita disperatamente.
Gli uomini, osservava Lucrezio, stanno chini sotto un peso ignoto che li stanca, provati da un'ansia di cui non sanno la causa. Non sanno cosa vogliono, cercano inquieti un luogo diverso dal solito dove deporre il loro peso di noia e di nulla. Il notabile romano lancia i cavalli alla villa di campagna, li frusta ansiosamente, quasi gli stesse bruciando il tetto: ma già sulla porta sbadiglia, si addormenta, e la mattina dopo torna in città, per la stessa strada. Ognuno, osservava Lucrezio, vorrebbe fuggire da sé, ma non è possibile, e più affonda in se stesso più si odia. Perché allora, si domandava Lucrezio, questa smania atroce di vivere? La via che percorriamo affannati è sempre la stessa. Ci sembrano belle solo le cose lontane.
Lucrezio sapeva che, tra i desideri vani della vita, il più tormentoso è l'amore. Appena l'uomo è adolescente il seme si scuote, il solo mostrarsi di una forma umana agita la materia liquida che cala dai canali segreti e pervade le membra tremanti e converge nei centri nervosi. Subito lo prende una pallida ansia di vuotare quel fluido nel corpo che gli ha colpito la mente. Bisogna scacciare, diceva Lucrezio, l'immagine che resta negli occhi, il dolce nome che batte le orecchie. Meglio versare il succo vitale in un corpo qualunque, non riservarlo all'amore di una sola persona. Così si evita il dolore sicuro. Non vedi come soffrono le coppie legate dal piacere? Quante volte incontriamo agli incroci due cani che si tirano in senso contrario con tutte le forze, e non possono sciogliersi dai duri, tremendi lacci di Venere!
Già quando l'amore è felice e i corpi si congiungono e sono vicini a godere e Venere inonda la cavità della femmina, i due si avviluppano, mischiano la saliva con la lingua, premono le labbra contro i denti, ma è inutile: non riescono a saldarsi, a confondersi in un solo essere. Così nasce la lotta. Ci logoriamo, consumiamo le forze, passiamo i giorni sotto il capriccio altrui. Nelle cene, tra i cibi, le anfore splendenti, gli scherzi, sentiamo intorno a noi il vuoto, perché dal colmo della gioia filtra qualcosa di amaro che incupisce anche i fiori e oscura l'anima. Se una parola ambigua esce dalla sua bocca ti tormenti, una sola traccia di riso sul suo volto ti addolora
Della vita di Lucrezio non sappiamo nulla, se non che fu insano di mente, che delirò per amore e che si uccise. Fra i non molti meriti di Cicerone si annovera quello di avere pubblicato, poco dopo la sua morte, il suo poema.
IL LIBRO
Alessandro Marchetti, Della natura delle cose di Lucrezio, a cura di Denise Aricò, Salerno, 544 pp., 20 euro