Dickens, l'operaio visionario che aveva «la chiave della strada»
TTL - Cl@assici | Portava giacche di velluto alla francese e cangianti gilet color tramonto, si era avvicinato ai popolo come a una divinità e gli aveva consacrato le sue sostanze e il suo sangue
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Charles Dickens fu un insigne creatore di mondi. Il mondo che lo creò fu quello della più cruenta rivoluzione di tutti i tempi: la rivoluzione industriale, "la notte dell'utilitarismo, in cui nessuno non può lavorare".
A dodici anni Dickens lavorò in una fabbrica di lucido da scarpe. Dopo il lavoro, errando a lungo per le strade, accumulò un capitale di visioni. La foresta cinerea di case popolari, interdette ai raggi del sole. Le nebbie gialle e sporche del Tamigi, pigro nel suo ansito e nella sua febbre. Gli umidi e lugubri padiglioni sulle rive. La scritta "Moor Eeffoc" sulla targa di vetro di un caffè vicino a St. Martin. Il mutare dei passeggeri sull'omnibus come figure di un caleidoscopio.
Gli operai, all'entrata delle fabbriche, ricevevano il laudano. Dickens trovava la sua droga all'uscita, tra la nebbia di Londra, nell'ora in cui la tecnica aveva proscritto l'oscurità, l'aveva confinata nelle brughiere e per impedire il suo ritorno aveva acceso i lampioni.
Dickens aveva imparato a leggere a quindici anni. Come Job Trotter, era arrivato troppo tardi e le porte delle case erano chiuse. Ma lui, come disse il giovane di studio di Mr Perker, "aveva la chiave della strada".
Aveva i ladri, gli usurai e i ricettatori. Aveva le vecchie signorine innamorate e le collegiali spaventate. Aveva Pickwick, Winkle, Tupman e Snodgrass. Aveva Mrs Nickleby e Newman Noggs. Aveva Micawber e Murdstone, Peggotty e Mrs Gamp. Aveva Martin Chuzzlewit, aveva Dombey e suo figlio, aveva la piccola Dorrit e aveva Pip.
L'arte di Dickens somigliava alla vita. Come lei era egoista e irresponsabile. Più l'enigma era impressionante, più la soluzione era banale. In Dickens la superficie delle cose sembrava più tremenda delle loro profondità. La vita e Dickens producevano mostri. La vita crea il rinoceronte, Dickens crea Bunsby.
A diciott'anni Dickens era bello, pallido e femmineo. Aveva lunghi capelli castani e grandi occhi, uno ironico, l'altro terrorizzato. A cinquant'anni, quando leggeva in pubblico le pagine dei suoi romanzi, quel viso assumeva di volta in volta le innumerevoli maschere di follia che portavano i suoi personaggi. Si raggrinziva nella stupidità attonita della domestica di Mrs Raddle. Si espandeva nell'energia apoplettica del sergente Buzfuz. Gli ascoltatori piangevano dal ridere e le signore a volte svenivano in platea.
"Tutto è sprofondato", diceva Dickens, "dopo il grande Seicento. Non abbiamo più speranze". Dickens amava De Foe e Cervantes, Fielding e gli elisabettiani. Portava giacche di velluto alla francese e cangianti gilet color tramonto. Si era avvicinato al popolo come a una divinità e gli aveva consacrato le sue sostanze e il suo sangue. Le estenuanti insonnie e i nervi lacerati, le camminate notturne e i taccuini gremiti erano solo un olocausto.
L'unico uomo di genio che Dickens ebbe per amico fu Wilkie Collins. Impossibile trovare nell'Inghilterra vittoriana due individui più sprezzanti della superstizione, né due autori più abili a suscitarla.
IL LIBRO
Charles Dickens e Wilkie Collins, Senza uscita, Nottetempo, 227 pp., 12 euro