Silvia Ronchey

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Virgilio, solitario e magico poeta, in ogni verso nascose una preghiera

TTL - Cl@assici | Fu seppellito a Napoli, sulla via di Pozzuoli, e la sua anima si inabissò nel lago Averno. Solo tredici secoli dopo ne uscì, per un pertugio tondo, a rivedere le stelle

05/04/2003 Silvia Ronchey

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La Stampa

La notte tra il 17 e il 18 ottobre del settantesimo anno prima della na­scita di Cristo, durante il primo consolato di Pompeo e Crasso, mol­to più a Nord della città insidiata dalla guerra civile, una donna di nome Magia Polla, moglie di un apicoltore, sognò un ramo di alloro, che subito fiorì. Il giorno dopo Magia partorì in un fossato, e sul luogo del parto crebbe un pioppo, che da allora venne chiamato «l’albero di Virgi­lio». Era questo infatti il nome del bambino, che fu sempre circondato di magìa.
Divenne alto, scuro di pelle, di linea­menti forti. Eppure i compagni di studi lo chiamavano «fanciullina», perché si inna­morava dei ragazzi e perché era solitario, timido e malato di tisi. Mentre studiava grammatica a Milano, morì Lucrezio. Mentre studiava retorica a Roma, morì Catullo. Mentre studiava alla scuola epi­curea di Napoli, morì Cesare. Secondo alcuni Ottaviano, anche se più giovane, era stato suo condiscepolo. Fu comunque suo amico e quando divenne unico princi­pe si specchiò nel filosofo divenuto poeta.
«Nessun giorno senza un verso», era il motto di Virgilio. Per scrivere un esame­tro poteva lavorare un'intera giornata. Ma poi quell'unico verso era un universo. Il significato delle parole irradiava nel presente, nel passato e nel futuro. Poiché Virgilio era un dotto e aveva il dono di celare nella scrittura l'allusione alle ope­re del passato; era un letterato e aveva il dono di far rivivere il mito nel suo tempo; era un mago e un flamine e aveva il dono della profezia. Le sillabe avevano la lucentezza e la sonorità di un argento battuto ed echeggiavano come un mantra alle orecchie del principe, che a volte piangeva per l'emozione. Ogni vocabolo, anche quello che poteva sembrare lì per caso, assumeva nei versi di Virgilio un significato rituale. Secondo Pretestato e i suoi amici, Virgilio fu il poeta più compe­tente in campo religioso e in ogni verso, in ogni vocabolo nascose una recondita preghiera e una puntigliosa liturgia.
Virgilio non finì mai il suo poema. L'Eneide fu pubblicata dopo la sua morte e nonostante il suo divieto, per volere di Augusto. Per limarla Virgilio era andato in Grecia, ma durante una gita da Atene a Megara in compagnia dell'imperatore si ammalò e dovette imbarcarsi per l'Italia. Blu acciaio e leggere, agitate da un impercettibile vento contrario, le onde dell'Adriatico andavano incontro alla flot­ta imperiale. Era settembre, Virgilio gia­ceva sul ponte della nave. Sarebbe stata una felicità perfetta se, malgrado l'aria salubre del mare, non fossero tornate la tosse continua, la febbre spossante e le angosce serali. A Brindisi, prima di mori­re, dettò due versi per la sua tomba. Fu seppellito a Napoli, sulla via di Pozzuoli, e la sua anima si inabissò nel lago Averno. Solo tredici secoli dopo, insieme a un altro giovane poeta, ne uscì, per un pertugio tondo, a rivedere le stelle.

 

IL LIBRO

Virgilio Eneide
testo latino a fronte, introduzione di Antonio La Penna, traduzione e note di Riccardo Scarcia,
2 voll., BUR classici, pp. 1175, €23

 

 

 


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