Hofmannsthal: il desiderio di morire riconciliato con l'infanzia
TTL - Cl@assici | Ebbe la facoltà di vivere le epoche passate dal di dentro: leggeva Shakespeare o Racine con la sensibilità del contemporaneo, il suo sapere era un ricordare in senso platonico
Articolo disponibile in PDF
Hugo von Hofmannsthal nacque vecchio e morì giovane. Quando le mura dell'impero vacillavano e la strada era finita nell'intransitabile e Vienna era un grande e cadente nido sulla roccia, Hofmannsthal fu uno dei pochi uomini vigili. Una volta aveva visto in una lente di ingrandimento la pelle del suo mignolo e gli era parsa una pianura con solchi e buche. L'acqua di un innaffiatoio, resa cupa dall'ombra di un albero, poteva sciogliere in lui lo stesso fiotto inarrestabile di lacrime che Crasso, l'oratore, aveva pianto per la sua murena.
Non era cortese. Percepiva con fastidio l'animo della gente. Reagiva con grandi riguardi, ma le sue belle maniere erano solo un riflesso nervoso per tenere gli altri a distanza. Citava volentieri il proverbio arabo: solo il gelo doma il fango.
Amava il detto di Confucio: l'uomo superiore vive in pace con tutti, senza agire come tutti; l'uomo volgare agisce come tutti e non va d'accordo con nessuno. Negli uomini superiori, diceva Hofmannsthal, c'è una pigrizia feconda e una improduttiva, che sconfinano l'una nell'altra in una regione sottratta al nostro sguardo. Era un uomo in cui la natura raggiungeva tutto e l'intenzione nulla. Aveva sempre la mano leggera, pronta a lasciare la presa. Non mirava mai a qualcosa, non cercava mai di persuadere e in questo stava la sua eleganza. La profondità va nascosta, diceva. Dove? Alla superficie.
Secondo Hofmannsthal ogni relazione tra due creature è un individuo, un démone. Ma i momenti più alti di felicità si realizzano in perfetta solitudine, senza rapporti privilegiati con una singola creatura, ugualmente vicini a tutti come nel centro di una sfera.
Lo accompagnava sempre la massima di Lao Tse secondo cui, considerando il tempo universale e il crescere dell'umanità, il figlio è più vecchio del padre. Secondo Hofmannsthal, bisogna superare il senso del presente, come nella musica la percezione del timbro degli strumenti.
Negli ultimi anni della sua breve vita ebbe la facoltà di vivere le epoche passate non dal di fuori ma dal di dentro. Leggeva Shakespeare o Racine con la sensibilità del contemporaneo. Il suo sapere, il suo conoscere, era un ricordare in senso platonico. In testa al suo Ad me ipsum mise una citazione di Gregorio di Nissa: "L'amante della suprema bellezza considerava ciò che aveva già visto solo come una copia di ciò che non aveva visto ancora".
Hofmannsthal voleva morire riconciliato con la sua infanzia. Ma a sciogliere l'intrico dei ricordi, diceva, non basta tutta la vita. Le persone che amiamo sono abbozzi di possibili quadri. Abbiamo l'errata consuetudine di prestare agli altri esseri molto di ciò che ci è particolare. Così nascono dei veri e propri mostri, simili a quelli che la luce di una lanterna suscita in una casa piena d'angoli.
Secondo Hofmannsthal tutto ciò che si esprime è indecente. Il semplice fatto di esprimere qualcosa è indecente. Tutto ciò che importa nella vita sta al di là della parola. Il massimo timore di Hofmannsthal fu sempre quello di dimenticare il mistero. Scrisse: "So tritt des Bettlers Fuss den Kies, / Der eines Edelsteins Verlies".
IL LIBRO
Hugo von Hofmannsthal, Lettera di Lord Chandos, introduzione di Claudio Magris, testo tedesco a fronte, BUR Classici, 63 pp., euro 6,80