Stevenson, com'è elegante vagabondare nel Club dei Suicidi
TTL - Cl@assici | Scrittore scozzese e capotribù polinesiano, si chiamava anche Tusitaia, o Narratore di Storie, uno strano contrasto fra la soavità dei vocaboli e l'atrocità di ciò che potevano creare
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Robert Louis Stevenson fu uno scrittore scozzese e un capotribù polinesiano. Si chiamava anche Tusitala, o Narratore di Storie. Stevenson si considerava un sopravvissuto. La sua vita era un eccezione alla regola di Darwin, una deroga alla condanna che fin dalla nascita gli aveva inflitto la natura. Da bambino il freddo mondo gaelico lo aveva risparmiato, nutrendolo di fiabe. Da adulto, nei caldi climi australi, avrebbe sempre avuto l'aspetto del malato a morte.
Mentre l'Inghilterra vittoriana si vestiva di nero e si chiudeva nella penombra delle sue stanze, Stevenson aveva preso a girare il mondo. Aveva amato, dapprima, viaggiare a piedi. Nel suo sacco non c'erano né pettine, né biancheria di ricambio, né rasoio, ma solo le poesie di Charles d'Orléans, una bottiglia di cabernet-sauvignon, tabacco, inchiostro, carta, penna. Portava giacche di velluto floscio senza bottoni e la camicia aperta sul collo. Spesso la polizia lo fermava per vagabondaggio. Ma l'eleganza delle sue maniere induceva invariabilmente a rilasciarlo.
L'eccesso della sua magrezza era pari solo a quello della sua bellezza. Aveva lunghi capelli lisci biondo cenere, sottili mani candide, occhi scintillanti. Sapeva stregare con le parole. Come il fonditore di cera persa fa colare il bronzo intorno al nucleo d'argilla, così Stevenson faceva colare le sue storie intorno all'allucinazione che il mind's eye aveva catturato. C'era uno strano contrasto fra la soavità dei vocaboli e l'atrocità di ciò che potevano creare. Robinson che scopre l'impronta di un piede sconosciuto sulla sabbia, Jekyll che al risveglio vede la propria mano coperta dalla peluria di Hyde sono le due immagini più terrificanti della storia della letteratura.
Oltre che del monumentale Savile Club di Brook Street, a Londra Stevenson fu socio onorario del Club dei Suicidi, non lontano da Charing Cross. Questo club dai mobili malandati era il tempio dell'ebbrezza. I suoi soci dovevano trattenersi dall'eccedere in quello che definivano il loro ultimo vizio. Avendo sperimentato tutti gli altri, erano pronti a giurare sul loro onore che non ne esiste uno non sopravvalutato in modo madornale. I profani, ad esempio, si lasciano trascinare dall'amore. I soci del Club dei Suicidi negavano che l'amore sia una passione forte. La paura è la passione forte: bisogna lasciarsi andare alla paura, se si vogliono assaporare le più intense gioie del vivere. Inventando il gioco di morte nell'arena romana, riteneva Stevenson, i pagani avevano anticipato lo spirito del Club. Ne ammirava la raffinatezza mentale. Ma doveva toccare a una nazione cristiana come quella di Sua Maestà raggiungere l'estremo, la quintessenza, l'assoluto dell'angoscia.
Quando il breve filo elargito dalle Fate si esaurì, Stevenson morì di colpo nelle Isole dei Beati, a Upolu, Samoa, venerato dagli indigeni. La sua stretta tomba polinesiana si trova sulla cima del picco Vaea, a strapiombo sul Pacifico. Stevenson aveva già scritto nel suo Requiem: "Under the wide and starry sky / Dig the grave and let me die: / Glad did I live and gladly die, / And I laid me down with a will. / This be the verse you grave for me: / Here he lies where he long'd to be; / Home is the sailor, home from the sea, / And the hunter home from the hill".
IL LIBRO
Robert Louis Stevenson, Il principe Otto, a cura di Masolino D'Amico, Nottetempo, 316 pp., 12 euro