Visionario Perrault: trasformava le zucche in carrozze dorate
TTL - Cl@assici | Avvocato, letterato fallito, accademico di Francia: a 60 anni cadde in disgrazia. Aveva denigrato gli antichi, si era inimicato i moderni, potè frequentare solo il mondo senza tempo delle fiabe
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Charles Perrault fu un avvocato, un burocrate, un letterato fallito, un accademico di Francia. Il suo protettore fu Colbert, il suo nemico Boileau. Per tutta la sua vita di cortigiano non fece che perdere la faccia nelle vane dispute che la fedeltà alla monarchia assoluta e la propaganda al suo secolo gli imponevano, che i veri scrittori irridevano e alle quali lui stesso non credeva. Fu malgrado se stesso un progressista e con tutto se stesso un conformista.
Sotto la lunga parrucca di riccioli imposta da Luigi XIV la fronte di Perrault era bassa, gli occhi gelidi e troppo vicini. Aveva un naso da predatore, labbra sottili increspate in un impercettibile sorriso di sfida.
Secondo Perrault, niente era immenso quanto il Re Sole e solo gli artisti che ne celebravano la grandezza meritavano questo nome. Lebrun era meglio di Raffaello, Quinault di Racine. Secondo Perrault nessuno statista poteva competere con il cardinal Mazzarino e i versi scritti in suo onore erano i più degni di essere raccolti.
Ma a sessant'anni Perrault cadde vittima di un maleficio e precipitò in disgrazia. Aveva denigrato gli antichi, si era inimicato i moderni. L'unico mondo che poté frequentare fu quello senza tempo, né antico né moderno, delle fiabe.
Gli erano ormai preclusi i saloni di Versailles affollati di cortigiani e nobildonne, gremiti di governanti, damigelle d'onore, cameriere, gentiluomini, credenzieri, maggiordomi, cuochi, sguatteri, facchini, guardie svizzere, paggi, valletti. Ma tutti erano rimasti immobili nel suo ricordo, come si fossero improvvisamente addormentati - anche i cavalli con i loro palafrenieri, anche gli spiedi carichi di pernici e di fagiani.
Il sortilegio che aveva arrestato la sua ascesa diede sprigionò l'unica forma di scrittura che Perrault seppe praticare: la riscrittura. La sua sterile penna d'oca volò e trasfigurò mentre li ricopiava i racconti che le contadine di Francia si tramandavano di generazione in generazione mentre filavano la lana con in mano il fuso e la conocchia come Parche, o Fate.
L'antico cortigiano entrò così al servizio delle Fate. Cantò la loro gloria, prestò loro le fruscianti gale e i sontuosi gioielli, apparecchiò le loro tavole con posate d'oro zecchino ornate di diamanti e rubini. Per una volta, alla fine della sua vita, Perrault divenne l'avvocato dei deboli, celebrò il loro trionfo sui potenti, umiliò la nobiltà del sangue per far vincere quella del cuore.
A corte aveva ammirato e invidiato la sequela di amanti del re. Quando fu al servizio delle Fate, vide quelle donne con altri occhi, come cadaveri insanguinati appesi alle pareti in un corridoio sotterraneo di cui nessuno osava chiedere la chiave. Più invecchiava, più diventava visionario. Sognò le enormi zucche delle campagne tramutarsi in carrozze dorate, i topi agonizzanti nelle tagliole trasformarsi in destrieri e in cocchieri baffuti, le lucertole abbarbicate ai muri diventare lacché dalle verdi livree gallonate.
Il camaleontismo del cortigiano si dissolse nelle metamorfosi della fiaba, dove le scarpette erano di vetro come quelle dei morti nelle tombe antiche, dove i balli dei principi erano sabba di streghe, dove l'inconsistenza della vita si rivelava al rintocco della mezzanotte.
IL LIBRO
Charles Perrault, Fiabe, a cura di Ida Porfido, introduzione di Daria Galateria, Marsilio, 147 pp., 14,50 euro