Se credi in dio sei un kakodaimon, uno sventurato
TTL - Cl@assici |Luciano di Samosata morì sotto Commodo, secondo Suida sbranato dai cani per il suo ateismo
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Luciano di Samosata visse nella felice età degli Antonini. Morì sotto Commodo, secondo Suida sbranato dai cani per il suo ateismo. Fu un conferenziere e fece della conferenza un genere comico, uno scrittore e dissacrò la scrittura, un filosofo e un nemico dei filosofi. Per deriderli diede alla maggior parte dei suoi scritti la forma di dialoghi socratici. Fu un osservatore della stupidità del mondo, della vanità delle sue fedi, della vanitosa malafede di quanti vi sono incoronati sapienti.
Luciano prese in giro i concorsi a cattedra creati da Marco Aurelio ad Atene per le diverse scuole filosofiche. La cattedra era l'Elena per cui gli accademici si facevano guerra a colpi di ricatti personali e di scandali. Secondo la commissione di concorso, la cosa più importante in un filosofo è una barba folta e lunga, degna di fiducia. Se si dovessero giudicare i filosofi dalla lunghezza della barba, però, il candidato vincente sarebbe il caprone.
Faceva ridere il suo pubblico a spese delle dottrine degli intellettuali. Immaginò che Zeus decidesse di mettere all'asta i modi di vita proposti dalle diverse scuole: la vita pitagorica e quella cinica, la vita platonica e la peripatetica, la vita stoica e perfino l'epicurea, che in fondo condivideva. Si autodenominò Parresiade e si disse il Prometeo dei discorsi. Nello scrivere usava una tecnica mascherata che avrebbe fatto la delizia dei bizantini (infatti Luciano fu molto amato a Bisanzio). I suoi scritti erano un mosaico di citazioni letterali dai testi classici e dai loro più autorevoli esegeti. Per fare questo gioco letterario occorrono: una notevole biblioteca, una notevole cultura, una notevole presunzione e una notevole disperazione. Luciano le possedeva tutte e quattro.
Luciano non solo era ostile a qualunque religione rivelata, ma considerava chiunque credesse in qualcosa un kakodaimon, uno sventurato. Quando non fosse, oltre a questo, anche un impostore, come Peregrino, il deprecabile cinico che Luciano vide suicidarsi dandosi fuoco davanti al pubblico dei giochi olimpici per fare pubblicità nei secoli a se stesso oltreché alla discutibile chance di rinascere, dopo l'annientamento dell'io mortale, alla verità.
Fra i kakodaimones Luciano annoverava gli adepti di una nuova e singolare forma di iniziazione introdotta da un predicatore crocifisso in Palestina. Questi sventurati, spiegava Luciano, si sono convinti in modo assoluto di essere immortali e di vivere in eterno, ragione per cui disprezzano la morte e le si consegnano spontaneamente; affermano di essere tutti fratelli l'uno dell'altro e che tutti i beni sono proprietà comune e anche questi da consegnare spontaneamente, principio che hanno accolto senza esplicite garanzie; cosicché, da tutti i punti di vista, vengono turlupinati.
Luciano fu amato da Fozio e da Areta, da Melantone e da Erasmo, da Boileau e da Fénelon, da Fontenelle e da Federico II di Prussia. Seppe mescolare così bene le cose serie alle prese in giro e le prese in giro alle cose serie, e dire la verità ridendo e ridere del dire la verità, che nessuna commedia, nessuna satira potrà mai farti divertire e nello stesso tempo edificarti quanto i suoi dialoghi.
IL LIBRO
Luciano, Dialoghi degli dèi. Dialoghi marini. Dialoghi dei morti, a cura di Stefano Tuscano, Superbur Classici, 208 pp., euro 4,99