Avempace, il mistico fallito che fu filosofo, diplomatico, eremita e visir
TTL - Cl@assici | Amò la Repubblica di Platone e l'Etica Nicomachea di Aristoteie. Fu amato da Avicenna, Averroè, Tommaso d'Aquino, Duns Scoto
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Avempace fu un mistico fallito, un filosofo insieme platonico e aristotelico, come tutti. Il suo vero nome era Abu Bakr Muhammad Ibn Yahya Ibn al-Sa'igh Ibn Tujibi Ibn Bajjah. Era nato a Saragozza quando governava la dinastia dei Banu Hud, detti reves de taifas. Nella sua vita visibile fu n medico che nel nome di Galeno vagava per l'Andalusia; un poeta che dissipava la tristezza e il dolore dai cuori degli uomini; un musicista appassionato. Fu ora prigioniero, ora diplomatico, ora solitario, ora visir. Morì avvelenato nel 533 dall'egira, anno 1138 o 1139 dell'era cristiana. Aveva poco più di quarant’anni e molti nemici ed era stato accusato di zandaqah, eresia.
Secondo alcuni, il letterato e visir Abu Bakr era una calamità per la religione e un motivo di pena per coloro che seguono il retto cammino. Lo vedevano presuntuoso e folle, indifferente alla religione, preoccupato solo di cose inutili come la filosofia dei gentili. Si burlava delle parole di Dio. Sosteneva che il tempo è una rivoluzione, eterna e che l'uomo è come la pianta o il fiore: tutto finisce con la morte e, strappato dalla terra, si distrugge. Tuttavia l'acciarino della sua intelligenza fece sprizzare tante di quelle scintille che, al suo nattere, l'ignoranza degli avversari era ridotta in cenere. Avempace amò la Repubblica di Platone e l’Etica Nicomachea di Aristotele.
Fu amato da Avicenna, Averroè. Tommaso d'Aquino, Duns Scoto. Secondo Avempace può esistere, come riteneva Platone, una città perfetta, ma nella maggior parte dei casi gli uomini vivono in città imperfette. Il regime più corretto nelle città imperfette è il regime di chi se ne sta in disparte, perché le sue opinioni non concordano con quelle della comunità. Avempace chiamò quest'uomo 11 solitario ", così come i mistici sufi lo chiamavano lo straniero". Anche se si trova nella propria patria, infatti, tra i propri conterranei, costui rimane straniero perché ha viaggiato con la mente verso altri livelli di realtà, che sono diventati i suoi veri luoghi d'origine. Secondo Avempace, tuttavia, neppure i sufi danno a questa specie d'uomo il giusto nome, poiché svalutano il ruolo dell'intelletto e trasformano l'organo più nobile in qualcosa che esiste invano. Non c'è infatti un nome appropriato per chi si comporta rettamente e pensa correttamente nella città imperfetta, professando il contrario di quanto è creduto.
Avempace propose di chiamare questi solitari nawabit, "piante", come le erbe spontanee che si incontralo in mezzo a quelle coltivate. La presenza di piante, cioè di elementi selvatici, corrompe la città perfetta, mentre migliora la città imperfetta e la fa progredire. Non si sa come fosse il suo aspetto. I nemici lo videro brutto et sporco. Alcuni secoli dopo la sua morte, Giorgione lo sognò e lo dipinse fra i Tre Filosofi. Aveva un viso dolce e assorto, gli occhi bassi, la pelle ambrata, una lieve, barba, un turbante bianco, un caftano, azzurro decorato d'oro. Dietro di lui il pittore mise un albero lussureggiante.