Silvia Ronchey

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Avempace, il mistico fallito che fu filosofo, diplomatico, eremita e visir

TTL - Cl@assici | Amò la Repubblica di Platone e l'Etica Nicomachea di Aristoteie. Fu amato da Avicenna, Averroè, Tommaso d'Aquino, Duns Scoto

22/06/2002 Silvia Ronchey

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La Stampa

Avempace fu un mistico fallito, un filosofo insieme platonico e aristotelico, come tutti. Il suo vero nome era Abu Bakr Muhammad Ibn Yahya Ibn al-Sa'igh Ibn Tujibi Ibn Bajjah. Era nato a Saragozza quando gover­nava la dinastia dei Banu Hud, detti reves de taifas. Nella sua vita visibile fu n medico che nel nome di Galeno vagava per l'Andalusia; un poeta che dissipava la tri­stezza e il dolore dai cuori degli uomini; un musicista appassionato. Fu ora prigioniero, ora diplomatico, ora solitario, ora visir. Morì avvelenato nel 533 dall'egira, anno 1138 o 1139 dell'era cristiana. Aveva poco più di quarant’anni e molti nemici ed era stato accusato di zandaqah, eresia.
Secondo alcuni, il letterato e visir Abu Bakr era una calamità per la religione e un motivo di pena per coloro che seguono il retto cammino. Lo vedevano presuntuoso e folle, indifferente alla religione, preoccupa­to solo di cose inutili come la filosofia dei gentili. Si burlava delle parole di Dio. Sosteneva che il tempo è una rivoluzione, eterna e che l'uomo è come la pianta o il fiore: tutto finisce con la morte e, strappato dalla terra, si distrugge. Tuttavia l'acciari­no della sua intelligenza fece sprizzare tante di quelle scintille che, al suo nattere, l'ignoranza degli avversari era ridotta in cenere. Avempace amò la Repubblica di Platone e l’Etica Nicomachea di Aristotele.
Fu amato da Avicenna, Averroè. Tomma­so d'Aquino, Duns Scoto. Secondo Avempa­ce può esistere, come riteneva Platone, una città perfetta, ma nella maggior parte dei casi gli uomini vivono in città imperfette. Il regime più corretto nelle città imperfette è il regime di chi se ne sta in disparte, perché le sue opinioni non concordano con quelle della comunità. Avempace chiamò quest'uo­mo 11 solitario ", così come i mistici sufi lo chiamavano lo straniero". Anche se si trova nella propria patria, infatti, tra i propri conterranei, costui rimane straniero perché ha viaggiato con la mente verso altri livelli di realtà, che sono diventati i suoi veri luoghi d'origine. Secondo Avempace, tuttavia, neppure i sufi danno a questa specie d'uomo il giusto nome, poiché svalu­tano il ruolo dell'intelletto e trasformano l'organo più nobile in qualcosa che esiste invano. Non c'è infatti un nome appropria­to per chi si comporta rettamente e pensa correttamente nella città imperfetta, profes­sando il contrario di quanto è creduto.
Avempace propose di chiamare questi solitari nawabit, "piante", come le erbe spontanee che si incontralo in mezzo a quelle coltivate. La presenza di piante, cioè di elementi selvatici, corrompe la città perfetta, mentre migliora la città imperfet­ta e la fa progredire. Non si sa come fosse il suo aspetto. I nemici lo videro brutto et sporco. Alcuni secoli dopo la sua morte, Giorgione lo sognò e lo dipinse fra i Tre Filosofi. Aveva un viso dolce e assorto, gli occhi bassi, la pelle ambrata, una lieve, barba, un turbante bianco, un caftano, azzurro decorato d'oro. Dietro di lui il pittore mise un albero lussureggiante.


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