Fecondazione assistita: una legge che si contraddice da sé
Articolo disponibile in PDF
Cara Fiorenza,
quando l’anno scorso il 74,1 per cento degli italiani ha disertato il referendum che proponeva di abrogare alcuni punti della legge 40 sulla fecondazione assistita, molti hanno accusato i media di non avere spiegato bene che cosa effettivamente significassero quei punti. A rendere più chiaro solo ora il senso della chiamata alle urne di allora è il ricorso alla Corte Costituzionale dei due coniugi sardi portatori sani di anemia mediterranea, perché coinvolge proprio uno dei punti che il referendum chiedeva di cancellare: l’obbligo di impiantare gli embrioni senza preventiva diagnosi. Alla Consulta i coniugi, che avevano già tentato la fecondazione assistita per poi ricorrere all’aborto terapeutico perché il feto era risultato malato, hanno domandato se l’inammissibilità della diagnosi pre-impianto non sia incostituzionale, ledendo il diritto alla salute fisica e psicologica della donna, ma soprattutto dell’embrione stesso.
La Corte Costituzionale ha giudicato la questione inammissibile - anche se forse non in assoluto, ma per vizi di formulazione. Ciò non ha impedito che sulla sentenza gravasse il dubbio di un’esitazione politica su una questione scottante, oltreché complessa. Se la legge 40 si pone, come è stato detto, “dal punto di vista del concepito”, e considera il “diritto a nascere” prioritario, perché allora consente l’amniocentesi a gravidanza avviata, e l’aborto terapeutico? È ovvio che siamo davanti a una delle tante contraddizioni annidate in questa legge, e a una catena di paradossi che solo l’esperienza di vita, propria o altrui, può aiutarci a sciogliere. Se il caso dei coniugi talassemici si fosse presentato prima del referendum, e con altrettanta evidenza mediatica, ci sarebbe forse sembrato più importante esprimere il nostro giudizio. Positivo o negativo non importa, purché non ideologico, ma empirico.