Zolla, l'arte cortese di crearsi nemici
A ottant'anni dalla nascita, nel quarto anniversario della morte, la moglie Grazia Marchiano pubblica «Il conoscitore di segreti», ricostruzione delle vite multiformi di un intellettuale eretico
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In Italia non incontrò se non fascisti», scrive di sé Elémire Zolla nella lapidaria voce autobiografica pubblicata nell’Autodizionario degli scrittori italiani alle soglie del suo ultimo decennio di vita. Fin da bambino, a Torino, aveva disprezzato quella peculiare mistura di intimidazione culturale e ipocrisia settaria che allora si incarnava nel fascismo e che a lui, da sempre poliglotta, abituato ai frequenti espatri, più apolide che cosmopolita, sembrava tipicamente italiana. «Frequentavo la scuola fascista con l’animo di Alice fra le bestie e le carte da gioco», ribadisce in un altro autoritratto. Ce lo ricorda Grazia Marchianò, a quattro anni dalla morte del marito e nell’ottantesimo anniversario della sua nascita, ne Il conoscitore di segreti: una rigorosa e appassionata ricostruzione - fitta di nuove testimonianze e seguita da una preziosa antologia di inediti - della sua vita, anzi delle sue vite, e del «singolare edificio a più piani che fu la mente zolliana, sfaccettata come un cristallo». «Il periodo che andò dal 1968 al 1980 vide Zolla isolato e aborrito in Italia dalla classe che aveva afferrato il potere», ricorda nel 1989 lo scrittore. Nel 1967, sulla rivista Letteratura Italiana, un critico definì l’opera di Zolla «una macchia necessaria nel nostro panorama d’idee e di scritture», in un articolo in cui la paragonava a quella di Umberto Eco. In quegli anni Zolla frequentava i salotti culturali romani «con distaccato piacere», scrive Marchianò, e «battute fulminee in cui le posizioni degli interlocutori venivano arpionate con una consumatissima destrezza dialettica». Era afflitto, come il Leverkühn del Doctor Faustus di Mann, in cui si identificava, da un «eccesso di intelligenza», quel tipo di intelligenza «che porta con sé una maledizione». L’arte cortese di crearsi nemici, già propria di Whistler, così caro al padre pittore, era praticata intensamente da quel giovane coltissimo, che a cinque anni leggeva il Tao te Ching e la Storia d’Europa di Croce, ma che l’amore anglosassone per l’eccentricità spingeva verso le cause perse e perfino maledette. All’inizio, tuttavia, sapeva e voleva ancora farsi perdonare, abituato com’era a sedurre con la sua magnetica bellezza e la sua voce che modulava «nel sussurro e nella declamazione» il ripido sarcasmo. «Sapeva vincere con la noncuranza di chi avrebbe trovato sommamente triviale approfittare del disagio altrui» e con la padronanza argomentativa che gli davano, oltre alle sterminate letture, gli studi in giurisprudenza. La evocano con timore nel 1955, dai tavoli di via Biancamano, Elio Vittorini e Carlo Fruttero, in uno scambio di lettere, che Il conoscitore di segreti implacabilmente riporta, su Minuetto all’inferno, il primo libro di Zolla, che Vittorini non voleva assolutamente pubblicare, mentre Fruttero insisteva «nel non ritenerlo indegno» e chiedeva al più anziano collega un minimo «sacrificio ideologico» in considerazione anche del «fatto certissimo che ci farà causa (è un esperto in materia) e che la perderemo». Grazie all’astuzia del giovane Fruttero il romanzo dell’antiprogressista Zolla uscirà da Einaudi e nell’estate del ‘56 vincerà inaspettatamente il Premio Strega, dando al suo autore la possibilità di scegliere, tra la parte degli «apocalittici» e quella degli «integrati», la seconda. Una possibilità che il giovane apparso a Maria Bellonci «in abito scuro, timido, ma che si assicura intelligentissimo», non colse e non coglierà mai. «L’istanza eretica, di colui che sceglie di stare dalla parte contraria, di andare controcorrente, consapevole del prezzo che tale scelta comporta», come scrive Marchianò, prevarrà, e lo spingerà «a collocarsi fuori dal giro allo scopo - inconcepibile per chi unicamente “nel giro” si sente al sicuro - di serbarsi libero di indignarsi». È eloquente il passo di San Nilo, l’asceta bizantino, messo in calce, nel 1959, a L’eclissi dell’intellettuale: «Colui che si disperde nella moltitudine ne torna crivellato di ferite». Quella raccolta di scritti fece di Zolla il saggista più detestato dall’establishment culturale nel periodo precedente al ‘68: «Scosse, impermalì, esasperò una compagine intellettuale avvezza a passare ogni questione, atteggiamento o punto di vista al filtro di un’insindacabile polarizzazione politica», ricorda Marchianò. «Il fatto che il pensiero sia il “padrone” piuttosto che il “servo” che esegue la polarizzazione era e rimane una considerazione del tutto estranea al codice in uso» nel mondo, eclissato o no, degli intellettuali italiani. «Che si trattasse di una battaglia intellettuale da combattersi senza alleati su cui contare gli fu chiaro da subito», aggiunge Marchianò. Non era del tutto vero. Zolla ebbe dalla sua parte i migliori: da Guido Piovene a Guido Ceronetti, da Elena Croce a Eugenio Montale, che nel 1959, sulle colonne del Corriere della Sera, diede di lui quella che forse è la migliore definizione possibile fra le tante, banali o variopinte («maestro scomodo», «intellettuale eterodosso»”, «turista metafisico», «cercatore di aure», «glossatore di archetipi», «alchimista della felicità») che gli sono state date. Per Montale Zolla è, semplicemente, «uno stoico che onora la ragione umana e che sente la dignità della vita come un supremo bene. È un uomo che non si mette “al di sopra” della mischia, ma che vuole restare ad occhi aperti. E finché esisteranno uomini così fatti la partita non sarà del tutto perduta». E però «la ribellione al culto della forza, di qualsiasi segno, lo aveva messo inconfondibilmente sempre dall’altra parte, e l’epoca in cui visse gli procurò occasioni a non finire di meditare sui segreti della forza» e della «tirannia, foss’anche solo del conformismo mondano». L’autore stesso definirà la propria opera così elogiata da Montale «una negazione di tutto il sistema dell’industria culturale, nel quale si rifletteva la tendenza del pensiero nato dopo il capovolgimento hegeliano, destinata a non poter essere generalmente accettata». Infatti, non lo fu mai. In parte ispirata al pensiero di Adorno e ai temi della Dialettica dell’illuminismo - l’idolatria progressista, la mistificazione dei consumi, l’interesse smodato per il corpo, l’abbassamento del soggetto sociale a una stupidità impudente e intontita - L’eclissi dell’intellettuale, scriverà trent’anni dopo Zolla, «formulava il sottinteso invito ad abbandonare il mondo quale è stato conformato dal potere di questo pensiero: i maggiori autori degli ultimi due secoli sono stati capaci di questo esodo». Fu così che Elémire Zolla, il più geniale fra gli intellettuali italiani del secondo Novecento, uscì dal mondo. Da quello della politica, anzitutto, e così da quello del potere editoriale e culturale. Da allora in poi il suo sarà un cammino a ritroso, un rinfilarsi definitivamente nella tana del coniglio di Alice, un’eversione ottenuta attraverso il passaggio a un’altra dimensione: quella della mistica. La contestazione radicale della modernità sarà programmaticamente affermata in quella precoce summa del pensiero di uno Zolla ricaduto nella tubercolosi fin quasi a morirne che è il saggio introduttivo a I mistici dell’occidente, un’antologia amatoriale e tuttavia di immensa suggestione laica: «una svolta senza ritorno» in cui Zolla fu spericolato «come solo uno che ha visto in faccia la propria morte sa essere in pieno». «Ero a quel tempo impensierito dalla depravazione circostante - scriverà Zolla poco prima di morire - tanto da volerla fugare: raccattai ciò che nella storia dell’Occidente poteva apparire limpido e fermo e ne feci il centro di un mandala nel quale tutto si rischiarasse e allentasse la presa». Ma, dal centro del suo mandala, Zolla rimase sempre un pensatore disincantato, un filosofo lucido, dalla visione pessimistica e cupamente ironica. «Per trascendere il mondo - scriveva - bisogna che il mondo ci sia». Preliminare alla conoscenza mistica è «prima la critica del bisogno falso, del consumo coatto, della repressione della natura, poi la configurazione della propria vita nell’ordine anteriore alla modernità». In questo senso, il cammino à rébours di Zolla è perfettamente coerente, e il suo programma filosofico-esistenziale fu attuato negli anni che Marchianò chiama degli «esodi» di Zolla, alla ricerca delle tante traiettorie di fuga che seguì per il resto della sua vita e che forse conosciamo meglio grazie all’accoglienza delle sue opere da Adelphi. Ma di questo libro prezioso la parte più preziosa è forse proprio quella che qui si chiude, quella che illustra lo Zolla precedente all’apparire dello Zolla quieto, evaporato, dissolto nella linea d’ombra della coscienza in cui Occidente e Oriente confluiscono. La parte dello Zolla sarcastico e caustico, animoso e bellicoso, corrosivo e aggressivo, ancora involontariamente illuminista, liberale anglosassone che non sa evadere dalla gabbia, in cui l’eccesso di intelligenza lo ha rinchiuso, di un’intelligencija troppo vicina al potere. È commovente il testo del Lied che Zolla cita in uno dei suoi saggi più belli e meno conosciuti, sul teatro di Brecht, del ‘56: «Alla mia parete è appeso un intaglio giapponese / maschera di un cattivo dèmone, coperto di lacca dorata. / Compassionevole guardo / le gonfie vene della fronte, che dicono / quanto sia faticoso essere cattivo».