Sinesio, o dell'intelligenza
Lettere da Bisanzio
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Le mie parole aguzze come frecce parlano solamente a chi capisce, ai synetòi ha scritto Pindaro nella II Olimpica. Deriva da synesis, intelligenza, il nome del bizantino Sinesio, futuro vescovadi Cirene ma tollerante di tutte le chiese e «iniziato a tutti i misteri». Un nomen omen: scrisse lettere lucidissime, in cui all’inizio del V secolo traspose nevrosi e pensieri, piaceri interiori e disgrazie pubbliche di un letterato aristocratico per nascita, ma soprattutto per intelletto, alla vigilia della caduta dell'impero d'Occidente. In quell’epistolario Sinesio colse frangenti e aspirazioni rimasti poi nell'esistenza quotidiana di letterati e dotti ben oltre la dissoluzione della classicità, fino al 700, all’800, al tardo romanticismo, alla soglia del mondo contemporaneo: fu un dandy ante litteram, un decadente della Decadenza prima e più vera, quella della Fine del Mondo Antico.
Gentiluomo appassionato e di filosofia e di caccia, a rinunciare alla dignità di vescovo nella giovane chiesa cristiana lo indurrebbe non tanto una preclusione religiosa (il tardo paganesimo neoplatonico è tollerante, aggiunge anziché sottrarre) quanto il timore di un’incompatibilità vuoi con la pratica speculativa, vuoi con quella di cavalli, segugi e arco. Allo status di conferenziere o di cattedratico contrappone «la libertà della vita di campagna, la facoltà di comporre testi (Iogoi)non misurati dalla clessidra ma dallo scorrere del torrente al di là dai miei cipressi». Per non farsi «schiavo di norme» non ha voluto avere studenti, «né due né tre»: «Avrei dovuto a causa loro andare sempre nello stesso posto, avrei dovuto parlare loro di argomenti prestabiliti».
Si sentirebbe «ancora più sminuito nella libertà personale» se dovesse «analizzare un libro fino alla minuzia». La prassi filologica «fa, sì, fortificare la memoria, ma lascia senza esercizio, appannata e inerte la facoltà critica, che deve essere invece giudice dei libri». Nella critica letteraria «è il filosofo ad agire più che il filologo». Quanto alla competizione universitaria, poi, è la più dannosa per la personalità intellettuale: perché la gelosia accademica, «la più grande e materiale delle passioni», fa sì che nello sforzo di prevalere sui colleghi lo studioso accentui i tratti del proprio pensiero fino a dogmatizzarli: «Chi potrebbe, allora, finire peggio di un uomo al quale non è più lecito divenire migliore?».
Invece, occuparsi di libri in modo filosofico, e cioè disinteressato, lucido e ampio, «spinge sempre la nostra personalità intellettuale dalla potenza all’atto» e dunque a migliorarsi. In una Cirenaica sconvolta dalle grandi migrazioni dei nomadi del deserto, dai rabbiosi rivolgimenti sociali, da rivolte religiose come quella in cui morì linciata dai monaci del vescovo Cirillo la filosofa Ipazia, sua maestra, Sinesio «scrive solo per sé» e colleziona classici «Come potresti impiegare meglio i beni di tuo padre? I miei campi li ho visti diminuire, molti dei miei schiavi sono divenuti miei concittadini, denaro non ne ho, né sotto forma di gioielli né in monete. Tutto quando possedevo l’ho speso per l’indispensabile: i libri».
Altro gravissimo rischio sarebbe farsi filosofo di professione, perché questi filosofi, pur divenendo magari personaggi pubblici, non sanno mai scrivere in prosa: «Potresti vedere più facilmente il loro cuore nelle viscere che non il suo contenuto, tanto incapace è la loro lingua di esprimere il pensiero», scrive nel Dione, il manifesto estetico di Bisanzio, il miglior testo di tutta la sua letteratura, come confidava agli allievi il grande bizantinista ex-benedettino Hans-Georg Beck. Peccato antitetico e parallelo all’oscurità dei technìtai è la reticenza dei mistici: la capacità di rivelare è concessa solo a pochi carismatici; e nell’elenco di questi «santi» del sincretismo tardo antico Sinesio affianca Ermete Trismegisto, Zoroastro e Ammone all’eremita Antonio di Tebaide.