Non toccate l'imperatore
Lettere da Bisanzio
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Racconta Niceta Coniate nel XII secolo che il geniale e terribile Andronico I Comneno riceveva anche i familiari e gli amici intimi celato dietro una cortina di seta: nessuno poteva scostarla (tranne, dice lo storico, certe «flautiste e cortigiane»).
L’irraggiungibilità, intangibilità e invisibilità dell’imperatore è uno dei dogmi astratti, esotici e esoterici della corte bizantina, che cospirano alla teatralità, alla vocazione scenica del suo cerimoniale, di cui può forse dare un’idea l’Ivan il Terribile di Eisenstein.
Una delle cerimonie più belle e indecifrabili del Grande Palazzo è il gioco del Gothikòn, dall’indubbio sfondo magico, che si svolge durante il banchetto dei Diciannove Letti ed è descritto nel Libro delle Cerimonie di Costantino Porfirogenito.
In realtà, nessuna norma cerimoniale a Bisanzio è priva di significato, ma poiché quest’ultimo non sempre è intellegibile o noto - non solo al normale lettore, a volte neppure allo studioso - si può avere un’impressione di gratuità, di puro estetismo dei gesti, e questo può renderli ancora più suggestivi dando luogo talvolta a una percezione simbolista e surrealista della cerimonia bizantina. Impressione gradevole, ma falsa.
Oltre che dai testi rituali, la sterminata aneddotica cerimoniale di corte è trasmessa dagli storici, che per undici secoli hanno raccontato gli eventi dell’impero avvicendandosi in un’unica linea narrativa incentrata su Costantinopoli: una specie di camera fissa sulla corte in un interminabile piano-sequenza.
In un passo della Cronografia di Michele Psello, il grande storico dell’XI secolo (pubblicata in due volumi dalla Fondazione Valla con il titolo Imperatori di Bisanzio), l’imperatore Romano IV viene portato in processione per essere acclamato dal popolo di Costantinopoli.
I paramenti cerimoniali per la processione (gli stessi descritti nel De cerimoniis) sono così pesanti e rigidi che il basileus non può più muoversi: gonfio, pallido, serrato nella cupa porpora e nell’oro, è trasportato di peso, come una mummia - scrive Psello – o un fantoccio.
In un altro corteo avanza l’amante dell’imperatore Costantino Monomàco, una principessa circassa dagli obliqui occhi verdi. Al suo passaggio un colto e galante cortigiano - probabilmente Psello stesso - cita a bassa voce la prima metà di un verso dell’Iliade: la frase che il vecchio Priamo pronuncia nel palazzo di Troia quando vede Elena, la principessa rapita a un’altra stirpe.
La giovane circassa ha sentito: si ferma davanti al cortigiano, lo fissa negli occhi e completa il verso di Omero a memoria. Ma, annota lo storico, sbaglia lievemente l’accento.
Nel laboratorio sotterraneo del Palazzo d'Estate, l’imperatrice Zoe passa giornate intere fra fumi d’incenso e alambicchi, lontana dalla luce del sole, in compagnia della sorella Teodora, la cui mania è invece collezionare monete antiche.
Quando le due basilisse concedono udienza, la grande sala è gremita dai dignitari disposti a scaglioni secondo ordine e rango. Al centro i due troni si collocano sulla medesima linea, solo, dalla parte della sorella minore, impercettibilmente inflessa. Niente è casuale nella cerimonia: nella taxis visiva, nel suo «ordine», si dimostra un assunto politico, giuridico, sacrale.