Meglio Maya o manichei?
Lettere da Bisanzio
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Il viso minuscolo del re-elfo esce dalla corolla di una calla o di un’orchidea; sorge, grandissimo, dal giaguaro che è anche il Sole notturno; è lumaca nella chiocciola, muscolo della conchiglia, spunta dal guscio sotterraneo della tartaruga, tartarouchos, ossia, anche per la civiltà greca, abitante del sottomondo; è uccello, pipistrello, falena, uno spirito animale molto caro e vicino ai potenti della terra; è ovviamente, serpente, il rivale che incarna, per Jung, la psiche inferiore, il primo deus otiosus.
Nella mostra veneziana dei Maya, a Palazzo Grassi, facce pietrificate: nero e arancione i colori della vita, verde quello della giadite che compone a mosaico le maschere dei morti; dunque la tinta dei fantasmi, quella con cui ritornano pallidi a visitare il mondo dei vivi. E rosso l’est, nero l’ovest, bianco il nord, giallo il sud, verde il centro di tutte le cose, la fertilità, il cuore della terrastufa da cui riemerge il viso urlante del re-animale-dio sacrificato e sacrificante.
Nella religione dei Maya non c’è il dualismo che il cristianesimo ha cresciuto nel suo terreno di coltura gnostico e manicheo, e che fu perseguitato da Diocleziano, Costantino, Valentiniano I, Teodosio, ancora Giustiniano; che fu avversato per secoli dopo Agostino dai padri di Bisanzio, nel propagarsi dell’estremismo dogmatico a pauliciani e bogomìli; e che fu molto temuto dalla teologia islamica, se in arabo la parola zindiq, "eretico", vuol dire "manicheo". Ne parla un libro di Melhem Chokr stampato nel ’93 a Damasco dall’Istituto francese di studi arabi.
Luce/ Tenebra, Bene/Male, Dio/Materia, nettamente opposti e distinti: le spiegazioni dell’enigma del male nel mondo delle dottrine semitico-cristiane come nelle religioni indoiraniche sono sostanzialmente equivalenti. Tutte ne promettono, qui sta forse il maggior rischio, una radicale soluzione e redenzione: in un aldilà, per la maggior parte delle dottrine di derivazione giudaico-cristiana e per quelle zoroastriana e mitraica; in rari casi, come per il buddhismo, durante la vita, attraverso l’ascesi.
Per i Maya invece, e in genere per tutti quelli che tendiamo a chiamare pagani il male e il bene si assomigliano e avvincono strettamente così come la vita e la morte: sono due maschere speculari, solo impercettibilmente difformi. Il sapiente è anche demente, grazie agli allucinogeni e alle droghe; il saggio maestro è anche assassino e sacrificatore di giovani vittime; tutti sono assetati di sangue e insieme delicati artisti e sottili matematici. Ma non è forse davvero così?
Di fronte all’enigma del male del mondo, la religione apparentemente violenta e selvaggia dei Maya (ma, domanderebbe qui Lévi-Strauss, che cosa è selvaggio?) colloca il buono e giusto, il santo, nella mescolanza inseparabile degli elementi opposti, nell’ambivalenza della vita apertamente riconosciuta, ratificata e elevata a principio.
Tramanda il Popol Vuh, poema sacro ai Maya, che i Progenitori dissero: «Vi saranno solo silenzio e immobilità sotto gli alberi e tra i cespugli? Conviene che d'ora in poi vi sia qualcuno a custodirli». Il sottofondo di questa religione, spaventosa o no, è una tolleranza verso la vita. Il paganesimo, ipersensibile al multiforme brulicare dei viventi, indulgente verso l’oscurità di tutti gli esseri, attento alle zone sfumate e di passaggio tra le specie e i mondi o tra gli aspetti della psiche, risparmia la Natura dall’insofferenza cristiano-manichea.