L'Oriente visto dall'Italietta
Lettere da Bisanzio
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«Bizantino» si dice sui giornali di un intrigo politico scandaloso, vano e cervellotico nel degradato ambiente, denominato Palazzo, della partitocrazia. «Bizantinismi» vengono definiti quei peculiari incidenti in cui il linguaggio tautologico e asintattico dei politici s’inceppa fino all'estinzione di ogni logica. «Bizantina» è insomma per eccellenza, nel lessico corrente in Italia, la corruzione: intellettuale o etica, dei costumi come del pensiero, delia politica e del linguaggio. Ma perché la democrazia italiana, che non è più e forse non è mai stata quella avvistata da Toqueville in America nè quella nordeuropea cui si riferiva Churchill nel definirla la meno dannosa delle forme politiche, non smette di addebitare a una civiltà splendida e remota, per undici secoli passata di rinascenza in rinascenza, i propri attuali aspetti deteriori di reale degenerazione e decadenza?
La bizantinistica scientifica è stata fondata solo al cadere dell’Ottocento, a Monaco di Baviera, da Karl Krumbacher, ma gli studi sulla storia e sulla politica di Bisanzio esistevano da secoli. Li avevano intrapresi nel Nord Europa i grandi filologi riformati della scuola di Melantone, come Hieronymus Wolf e in Francia l'erudizione giansenista (fino a che punto lo vedranno tra breve i lettori del nuovo appassionante saggio di Luciano Canfora sul Fozio censurato, che uscirà a fine ottobre). Li aveva mutuati, nella sua aspirazione cesaropapista, la corte del Re Sole, e dalle stamperie del Louvre, per ferma volontà di Colbert, erano usciti i primi volumi del Corpus Scriptorum Historiae Byzantinae, detto appunto Corpus del Louvre. Nel cambio della guardia tra Francia e Germania dopo il Congresso di Vienna il fiorire della bizantinistica corrisponderà, nei suoi termini cronologici, all’ascesa della monarchia prussiana, e a Bonn continuerà a stamparsi il Corpus degli Storici, da allora in poi denominato Corpus Bonnense.
Se si ripercorresse interamente la storia degli studi bizantini, si troverebbe che è sempre legata a quella dell’idea di Stato e che, nel coltivare e patrocinare l’interesse intellettuale per ciò che realmente Bisanzio fu, si sono avvicendati tutti i grandi stati dell’Europa moderna. Alla base del discredito e del disinteresse per l’esperienza dell’impero d’Oriente vi sono invece, in Italia, un retroterra cuiturale e una tradizione politica di isolamento. La nozione italiana di «bizantinismo» deriva, per un verso, dall’immagine di una Bisanzio ottocentesca, falsa come una scenografia di melodramma; dall’Italietta Umbertina delle Cronache bizantine di Sommaruga, dal dannunzianesimo (non da D’Annunzio), da dépliant turistici e miti campanilisti. Ma, soprattutto, la demonizzazione di Bisanzio capitale degli intrighi è un’eredità ecclesiastica. «Infami» e sues venivano chiamati i bizantini nei documenti medievali delle cancellerie pontificie. Il discredito di Bisanzio e del bizantinismo è il prodotto di una disinformazione deliberatamente accreditata, in origine, dalla propaganda romana avversa all'impero che dall’altra parte del Mediterraneo aveva perpetuato l’eredità classica escludendo il clero dal potere secolare.
Oltre che l’esempio più perfezionato e complesso di cultura e prassi politica della storia dell’occidente, Bisanzio è stata, infatti, un tentativo di Stato laico, anche se dominato da un’ideologia ultraterrena, amministrato secondo il diritto classico da un’élite dominante ramificata, educata, cosmopolita e plurilingue. Sarebbe davvero magnifico, se il nostro mondo politico fosse davvero «bizantino».