Silvia Ronchey

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Attualità e rubriche

L'infinito dell'amor cortese

Lettere da Bisanzio

04/03/1999 Silvia Ronchey

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Avvenire

«Generato dalla luce e dagli dèi, / eccomi un esilio e separato da loro. / Io sono un dio, / ma adesso sono ridotto a sof­frire», lamenta l’inno manicheo sul Destino dell’anima citato da De­nis de Rougemont nell’Amore e l’Occi­dente (II, 2).
L’angoscia di angeli precipitati in corpi trop­po umani è la Stimmung di ogni letteratu­ra gnostica. La prigio­nia dell’anima nella notte della materia è il dogma di ogni mani­cheismo. Nello slancio verso la Luce, l’anima lotta fra amore sessua­le e Amore.
Lo slancio è conti­nuamente impedito dal­la gelosia di Venere, che vuole trattenere «nell’o­scura materia l’amante in preda al luminoso de­siderio». E il desiderio evoca da una parte la re­minescenza del Bello dei dialoghi platonici, dal­l’altra la nostalgia del­l’eroe celtico ridisceso dal Cielo sulla terra, che ricorda l’isola degli im­mortali.
«Ma questo desiderio, / benché fatto di delirio, / prevale su ogni altro», canta Aimeric de Belenoi. Il compimento del­l’Amore nega ogni amore terrestre: per Jaufré Rudel e Bernard de Ventadour, Arnaut Da­niel e Peire Vidal.
Nel lirismo cortese, nei trovatori pro­venzali, nel romanzo bre­tone la canzo­ne d’amore ri­trova le note che i teologi bizantini ave­vano rivolto alle entità celesti.L’achoréstos échein tou théiou pòthou, il «non potersi saziare del desiderio del divino», la teoria di Gregorio di Nissa del progresso in­definito, espressa nella sua prima omelia sul Cantico e so­prattutto nella Vita di Mosè (Pg 44, coll. 401 e 404), si prolunga nelle omelie, più no­te in Occiden­te, di Bernar­do, ma soprat­tutto si rein­corpora in una teoria dell’amore terreno - nuovo però, rispetto a quello pagano, trasfi­gurato dal viaggio cele­ste che gli ha fatto com­piere la mistica cristia­na - nel teorico dell’a­more cortese, Andrea Cappellano.
Nella Provenza degli albigesi, il suo trattato Sull’amore è intinto del­l’idea catara venuta dall’Oriente e dall’ere­sia gnostica, che rinne­ga la procreazione e su­blime, in un complesso codice di castità, la ten­sione pagana del desi­derio proiettandolo ver­so l’infinito.
La condizione di «tra­fitti dall’amore celeste» (èroti ouranìo tetrothénai), per la prima volta enunciata da Gregorio di Nissa nell’omelia XII sul Cantico (Pg 44, col.1037), ricompare, ben prima che in Caterina o Teresa, nei testi ascetici bizantini del IV e del V, che comporranno la Fi­localia greca e russa, da Macario d’Egitto a Isi­doro Pelusiota. E di nuovo, secondo lo stesso meccanismo di reincar­nazione, nel medioevo dell’Occidente la ferita dell’eros mistico si tra­sfonderà nell’amor-supplicium provenzale.
Lo stesso da cui nasce, secondo Rougemont, il germe della segreta ma­lattia dell’amore occi­dentale. Da Tristano a Stendhal, l’Amour-Passion è sempre, come quello dei mistici, un cercare e non trovare, se non per istanti rarefat­ti di delirante comunio­ne, l’oscuro oggetto del proprio desiderio.


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