L'infinito dell'amor cortese
Lettere da Bisanzio
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«Generato dalla luce e dagli dèi, / eccomi un esilio e separato da loro. / Io sono un dio, / ma adesso sono ridotto a soffrire», lamenta l’inno manicheo sul Destino dell’anima citato da Denis de Rougemont nell’Amore e l’Occidente (II, 2).
L’angoscia di angeli precipitati in corpi troppo umani è la Stimmung di ogni letteratura gnostica. La prigionia dell’anima nella notte della materia è il dogma di ogni manicheismo. Nello slancio verso la Luce, l’anima lotta fra amore sessuale e Amore.
Lo slancio è continuamente impedito dalla gelosia di Venere, che vuole trattenere «nell’oscura materia l’amante in preda al luminoso desiderio». E il desiderio evoca da una parte la reminescenza del Bello dei dialoghi platonici, dall’altra la nostalgia dell’eroe celtico ridisceso dal Cielo sulla terra, che ricorda l’isola degli immortali.
«Ma questo desiderio, / benché fatto di delirio, / prevale su ogni altro», canta Aimeric de Belenoi. Il compimento dell’Amore nega ogni amore terrestre: per Jaufré Rudel e Bernard de Ventadour, Arnaut Daniel e Peire Vidal.
Nel lirismo cortese, nei trovatori provenzali, nel romanzo bretone la canzone d’amore ritrova le note che i teologi bizantini avevano rivolto alle entità celesti.L’achoréstos échein tou théiou pòthou, il «non potersi saziare del desiderio del divino», la teoria di Gregorio di Nissa del progresso indefinito, espressa nella sua prima omelia sul Cantico e soprattutto nella Vita di Mosè (Pg 44, coll. 401 e 404), si prolunga nelle omelie, più note in Occidente, di Bernardo, ma soprattutto si reincorpora in una teoria dell’amore terreno - nuovo però, rispetto a quello pagano, trasfigurato dal viaggio celeste che gli ha fatto compiere la mistica cristiana - nel teorico dell’amore cortese, Andrea Cappellano.
Nella Provenza degli albigesi, il suo trattato Sull’amore è intinto dell’idea catara venuta dall’Oriente e dall’eresia gnostica, che rinnega la procreazione e sublime, in un complesso codice di castità, la tensione pagana del desiderio proiettandolo verso l’infinito.
La condizione di «trafitti dall’amore celeste» (èroti ouranìo tetrothénai), per la prima volta enunciata da Gregorio di Nissa nell’omelia XII sul Cantico (Pg 44, col.1037), ricompare, ben prima che in Caterina o Teresa, nei testi ascetici bizantini del IV e del V, che comporranno la Filocalia greca e russa, da Macario d’Egitto a Isidoro Pelusiota. E di nuovo, secondo lo stesso meccanismo di reincarnazione, nel medioevo dell’Occidente la ferita dell’eros mistico si trasfonderà nell’amor-supplicium provenzale.
Lo stesso da cui nasce, secondo Rougemont, il germe della segreta malattia dell’amore occidentale. Da Tristano a Stendhal, l’Amour-Passion è sempre, come quello dei mistici, un cercare e non trovare, se non per istanti rarefatti di delirante comunione, l’oscuro oggetto del proprio desiderio.