L'incontro tra Amore e Sapienza
Lettere da Bisanzio
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Come raccontano gli invitati di Macrobio nei Saturnali (II, 8,16), Ippocrate sentenziò che il connubio amoroso è una forma, leggera, di epilessia (tén synousìan èinai mikràn epilepsìan).
«Chiunque ami troppo ardentemente la propria moglie è già adultero», scrive Girolamo, citando Sesto Empirico (Sentenze, 231): omnis ardentior amator propriae uxoris adulter est. Sarà ripreso da Pietro Lombardo, il primo emulatore occidentale di Giovanni Damasceno. La stessa idea si trovava, secoli prima, a Bisanzio, negli scritti dei Padri cappàdoci, a partire da Basilio (Omelie, 21, PG 30, col. 548; Epistole, 46, PG 32, coll. 369-371).
Per una metamorfosi che Denis de Rougemont ha descritto nel suo capolavoro, L’amore e l’Occidente (ora ristampato in italiano nelle Bur Saggi dopo quasi un quarto di secolo dalla sua prima uscita), quell’eros «troppo ardente» dei pagani, tanto rimproverato dai primi cristiani e condannato nei trattati medievali, sarebbe riemerso negli scritti dei mistici in tutta la sua fenomenologia e patologia psicosomatica. Sarebbe stato riferito però alla tensione dell'anima verso quell’oggetto invisibile e indefinibile del desiderio che è, fin dalla teologia negativa di Bisanzio, il divino.
La trasposizione prende le mosse dalla geniale esegesi allegorica di Origene al Cantico dei Cantici (PG 13, col. 68); ritorna, nella stessa contrapposizione di eros (l’amore-passione, l’amore-tensione), ad agape (l'amore fraterno, la charitas paolina), in un libro cardine della mistica bizantina, il De divinis nominibus dello Pseudo-Dionigi Aeropagita (PG 3, col. 709).
Per questi teologi d’Oriente si definisce eros la tensione dell’anima, che come la Sulamita cerca sempre, e non trova, lo sposo: la fusione con l’altro, il recupero del proprio sé intero, l’identificazione col tutto. «Sul mio giaciglio, lungo le notti, ho cercato quello che la mia anima ama: l’ho cercato, e non l’ho trovato». Riecheggiata per secoli dalla musica sacra, amplificata dopo il Concilio di Trento dai melismi di Monteverdi, quest’ansia, alla base di ogni azione psichica, sarebbe riemersa nella psicanalisi.
All’èros filòhylos, al desiderio il cui oggetto è materiale, le Scritture avevano già opposto un modello di eros sublimato: l’amore sapienziale (èrostès sophìas). Basta pensare a Proverbi IV 6, 8 o a Sapienza VIII, 2: «Non la lasciare, e ti accudirà. Amala, e ti terrà con sé. Aggrappati a lei, e ti solleverà. Quando l’avrai abbracciata, sarai riscattato». «Lei ho amato e cercato fin da adolescente. / Ho cercato di sposarla, / innamorato della sua bellezza».
A questo amore dell’anima terrena per la sapienza, già celebrato da tutto il platonismo greco prima che giudaico, fa da pendant celeste il delirio divino della creazione e dell’incarnazione, anche questo definibile come «incantamento erotico» ("delirium creationis atque incarnationis "thélxis erotiké" est); lo sostengono i teologi bizantini, fino al mistico trecentesco Nicola Cabasilas (De vita in Christo, 6, PG 150, coll. 645-648).
Ma la dimensione più vera dell’eros mistico, descritta da quello che Hans-Urs von Balthasar ha definito il più grande teologo di tutta l’antichità, Gregorio di Nissa, è estetica: alla base di ogni moto della psiche è l'èros tou thèiou kàllous, il desiderio erotico della bellezza divina.
La spinta di psyché è mimetica, in quanto partecipe dell’archetipo nella sua aspirazione al meglio, ma ridiviene tensione verso l’archetipo stesso, nel moto circolare e perpetuo che è proprio del pensiero mistico. È Gregorio di Nissa, nella sua prima omelia sul Cantico, a chiarire in modo definitivo la relazione tra eros e agape: «È detto eros l’amore che porta in sé un’indefinita tensione».