L'«ecce homo» di Ildegarda
Lettere da Bisanzio
Articolo disponibile in PDF
«Simon Pietro disse loro: "Maria si allontani da noi, poiché le donne non sono degne della Vita!". Gesù disse:" Ecco, io la trarrò a me per renderla maschio, perché anche lei divenga uno spirito vivo simile a voi maschi. Perché ogni femmina che diventerà maschio entrerà nel Regno dei Cieli». È un capitolo (121) del Vangelo di Tommaso il più famoso dei testi gnostici ritrovati nel 1945 a Nag-Hammadi.
L'insegnamento lasciato sepolto nel V secolo dall’apocrifo gnostico bizantino riaffiora in uno scenario medioevale tedesco. È l'inizio del XII secolo, siamo in riva al Reno. La monaca siede davanti a uno scrittoio, sorretta dall’alto schienale di una sedia. È pronta a scrivere o trascrivere qualcosa: tiene in mano l’occorrente, due tavolette di cera nera a due colonne ciascuna. È nera anche la veste claustrale, ricoperta di un mantello marrone, e le maniche della cotta bianca stringono i polsi che reggono lo stilo. Nella miniatura del suo Liber, ancora oggi consultabile tra i manoscritti della Biblioteca Governativa di Lucca, la santa ha relegato in basso, in un piccolo riquadro illuminato, questo autoritratto. Il viso è rivolto verso la parte principale del foglio, che la sovrasta con la visione da cui traboccano lingue di fuoco.
Ildegarda di Bingen, badessa di un piccolo convento ma dotata di grande genialità, era detta la Sibilla del Reno per il dono profetico che esercitava, riconosciuto da papi e imperatori, nella predicazione e nella politica, ma anche per la scrittura visionaria che consegnava ai suoi libri. «Nel millecentoquarantunesimo anno dall’Incarnazione, quando avevo quarantadue anni e sette mesi, una luce di fuoco abbacinante, proveniente dal cielo aperto, calò sulla mia intera mente e su tutto il mio corpo e pervase il mio petto, come una fiamma che non ustiona ma brucia nel suo calore immenso... Vidi un’enorme sfera, rotonda e piena d’ombra, meno larga sulla cima più ampia nel mezzo, ma, stretta alla base, con dalla parte esterna un cerchio sfolgorante di luce e al di sotto una sacca tenebrosa e in quella sacca un fuoco oscuro che mi ispirava orrore, colmo di pietre appuntite piccole e grandi...».
Assistita dal vecchio confessore Volmar e dalla giovane e aristocratica consorella Richardis, da lei amata «come Paolo amò Timoteo», la monaca Ildegarda impiegò dieci anni per trascrivere nella sua prima opera, lo Scivias, letteralmente Conosci le vie, «i misteri, i segreti e le implacabili visioni». La tormentavano da quando ne aveva cinque e solo quando superò i quaranta si consentì di consegnarle alle parole e alle immagini del suo manoscritto miniato, appunto il Libro delle opere divine della Biblioteca Governativa di Lucca. Tacere ciò che vedeva e sapeva le aveva fatto trascorrere una giovinezza macerata nell’ansia, «soffrendo nel midollo e nelle vene della carne, con lo spirito e la ragione contratti e in preda a grandi patimenti corporei».
«È donna chi non ha l’intelletto maschio che sradica dalla sua memoria tutte le passioni, che sono femmine, chi non sa servirsi di quella sola collera, che è potenza dell’anima distruttrice dei pensieri», ha scritto nel IV secolo il mistico bizantino Evagrio Portico nelle Centurie (47). Arrivata a quarant’anni, Ildegarda udì una voce parlarle al maschile, chiamarla homo. «L’uomo che ho voluto e ho introdotto per mio arbitro e capriccio nelle grandi meraviglie - diceva la voce - l’ho steso a terra, perché non si rialzasse in esaltazione di spirito. Il mondo non ha prodotto in lui né gioia, né diletto, né progresso nelle cose che gli erano proprie, perché l’ho privato di qualsiasi aggressività e ostinazione, facendolo rimanere timoroso e spaventato, senza alcuna sicurezza di sé».