Zolla, addio scorrettezza
Anche a sinistra è tempo di sdoganare un autore a torto etichettato come politicamente pericoloso
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Chissà se qualcuno ricorda cosa voleva dire, per chi fosse adolescente negli anni Settanta, farsi vedere in giro con in mano un libro di Elémire Zolla, o, peggio, con uno dei sottili fascicoli dalla copertina viola della sua rivista Conoscenza religiosa. Grazia Marchianò ha appena curato la raccolta completa degli scritti che Zolla vi pubblicò (Edizioni di Storia e Letteratura, pagg. 830, euro 65). Ma non era certo per sé stesso che Zolla l’aveva fondata, nel 1969, bensì per riunire in un’ideale, composita assemblea intellettuali come Schneider e Corbin, Borges e Pessoa, Florenskij e Brodskij, Scholem e Duncan Derrett, Quadrelli e Principe, Wilson e Assunto, Ceronetti e Quinzio, Djuna Barnes e Cristina Campo. Nomi che poi anche la cultura di sinistra ha ampiamente accolto e celebrato; a quei tempi, invece, erano ancora controversi, quando non un bel po’ maledetti. E Zolla, antifascista da sempre al contrario di molti suoi detrattori, era considerato politicamente scorretto: uno scrittore proibito. Di quegli anni, Zolla deprecava «la stoltezza totale». Era «impensierito dalla depravazione circostante», annunciata peraltro dalla rivoluzione culturale in Cina e dal suo furore distruttivo delle tradizioni universitarie, artistiche, professionali, familiari non solo cinesi, ma del Tibet. Lo stesso rischio di annientamento della tradizione, della catena stessa di trasmissione del sapere, che vedeva profilarsi qui in Europa, lo aveva spinto a «raccattare ciò che poteva apparire limpido e fermo» nella storia culturale dell’Occidente, per farne «il centro di un mandala». Il timore del progresso in anni in cui mostrarsi pessimisti voleva dire essere appestati, il liberalismo in politica, l’insofferenza per ogni estremismo, l’amore per la tradizione antica vista come alimento di ogni presente, per la sapienza mistica interpretata da laico, per un oriente cui riconosceva l’immenso debito occidentale facevano di Zolla un precursore e insieme il massimo esponente di quel secondo Novecento eretico che la cultura di oggi - non più soggiogata dal progressismo, percorsa dai fermenti critici degli ecologisti e insieme dai dubbi portati dalla globalizzazione — ha cominciato a riscattare. Ma negli anni della sua massima produttività, il più geniale fra gli intellettuali italiani del secondo Novecento era troppo libero, troppo controcorrente per non essere detestato dall’establishment culturale. «Il periodo che andò dal 1968 al 1980 - come ricorderà lui stesso poco prima di morire - vide Zolla isolato e aborrito in Italia dalla classe che aveva afferrato il potere». Nel ‘67 era stato addirittura definito «una macchia nel nostro panorama di idee e di scritture»: sulla rivista Letteratura Italiana, in un articolo in cui veniva contrapposto a Umberto Eco. Nei licei di allora, l’adolescente che avesse visto invece in lui, come aveva scritto Montale, «uno stoico che onora la ragione umana e che sente la dignità della vita come un supremo bene, un uomo che non si mette al di sopra della mischia, ma che vuole restare a occhi aperti», veniva deriso e condannato. Del resto, nel periodo della cosiddetta egemonia culturale della sinistra, l’austera tradizione dello studio dell’antico, che pure aveva prodotto grandi come Concetto Marchesi e Santo Mazzarino, era stata rinnegata dalla demagogia degli schieramenti. L’interruzione della trasmissione del sapere antico, che Zolla aveva presagito, si sarebbe così attuata in Italia anzitutto attraverso la distruzione del sistema scolastico, poi di quello universitario, anche nella sua parte scientifica, che Zolla peraltro conosceva ed esaltava. L’estinguersi della scienza e della conoscenza del passato e delle sue saggezze avrebbe generato una rimozione e una mutilazione intellettuale collettiva, che ci affligge ancora, inducendoci sempre più spesso, con risultati deplorevoli, a non tenere conto dei precedenti di quanto accade, non solo quando sono vecchi di millenni ma anche quando lo sono soltanto di qualche decennio. Ascoltare gli antichi, come diceva Leopardi, è un modo di «gettare i morti in faccia ai vivi». Anche per Zolla convivere con quella che chiamava «tradizione» significava frequentare il pensiero vivo negli scritti dei morti: Platone o Goethe, Gerolamo o Baudelaire. La loro compagnia era preferibile a quella dei viventi: «Vivi essendo - scriveva giustamente - piuttosto i morti che non coloro nei quali scorre il loro sangue, facilmente illusi di inventare ciò che è pura reviviscenza». Solo oggi, che anche Zolla appartiene a quel consesso, la sua voce può essere finalmente ascoltata. Ai liceali di allora, ormai divenuti gli ultimi tramiti dell’inceppata catena di trasmissione del sapere, spetta ora far rientrare a pieno titolo l’eccezionale figura di Zolla nella nostra memoria culturale e nei nostri manuali scolastici e universitari. Spesso la luce dei veri grandi è offuscata, finché sono vivi, dal pulviscolo di piccole glorie asservite al potere o alle mode. È la generazione successiva a dissipare quello sciame effimero, e a farli emergere come veri interpreti del loro tempo. Nessuno ha mai superato, in questo, Elémire Zolla.