Le bande di Costantinopoli
Lettere da Bisanzio
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Intorno alla metà del sesto secolo Costantinopoli, un milione di abitanti, era percorsa da bande di ragazzi che si facevano chiamare «azzurri». Non si tagliavano i capelli come gli altri, non si radevano barba né baffi. Scorciavano i capelli fino alle tempie sul davanti, mentre dietro li lasciavano crescere più lunghi che potevano: senza alcun senso, annota Procopio, ma secondo quella che veniva chiamata «la moda unna». Quasi tutti portavano, provocatoriamente, le armi. Si radunavano in gruppi. Organizzavano attentati notturni. Aggredivano, derubavano, a volte uccidevano i passanti della metropoli.
Costantinopoli fu la Seconda Roma, la Terza fu Mosca. «Non potrà mai più esisterne una Quarta!», grida, all’inizio del film di Eisenstein, Ivan il Terribile, maschera bizantina sotto cui si celava in quei duri tempi, l’autocrate Stalin. Ma se nel Novecento volessimo individuare una Quarta Roma, sarebbe New York. Non è un caso che la moneta aurea bizantina, incrollabile nei secoli, sia stata definita da Peter Brown «il dollaro del Medioevo». L’impero di Costantinopoli fu un sistema ad alta propulsione razionale, un «eccesso di civiltà» protratto in un’indefinita prosperità. La tecnologia bizantina trasmise all’Occidente il telegrafo ottico e il calendario gregoriano, l’arte navale e la manifattura libraria. Supremazia tecnologica e strategia bellica, persuasione politica ed eresia religiosa, disagio giovanile e immaginazione popolare si riflettevano a Bisanzio in una produzione dalle molte facce.
«New York è un giardino di pietra», aveva annotato Cocteau nel 1936. Anche nelle memorie di Ignazio di Smolensk, uno degli antichi visitatori di Costantinopoli, la Città è «una foresta di pietra», oltreché «una giungla di reliquie». C’è una strana consonanza fra le impressioni dei viaggiatori medievali a Bisanzio e quelle degli scrittori che tra la fine dell’Ottocento e la prima metà di questo secolo visitarono
New York. Le cuspidi scintillanti dei palazzi, rivestite di materiali che riflettono la luce, «sembrano giganteschi tabernacoli» al pellegrino trecentesco Ignazio di Smolensk. «L'anima di questi edifici è il successo. Sono i tabernacoli della modernità», osservava negli anni 30 del Novecento Paul Morand, davanti agli sfaccettati grattacieli. Se la vertiginosa altezza dei pinnacoli art déco aveva fatto «tremare il cuore» di Camus «davanti a tanta meravigliosa disumanità», per il monaco vagante Stefano di Novgorod il palazzo imperiale di Costantinopoli era «grande quanto una città».
Per chi arrivava a Costantinopoli dopo avere attraversato quella buia e incivile provincia, che era allora il resto del mondo occidentale quanto slavo, la Città sembrava «il faro della terra, che emanava la luce del giorno, dell’arte e della libertà». Sul Corno d’Oro, nell’incombere dei monumenti di pietra e di luce, il mare, annotavano stupefatti i diaristi, «entra nella metropoli». La prima cosa che avvistavano approdando era la gigantesca colonna con la statua bronzea di Giustiniano, maestoso simbolo della libertà e della legalità romana che vigeva a Bisanzio, custode per undici secoli, nel Codex Iustinianus, del diritto classico.