La città dai molti nomi
Lettere da Bisanzio
Dopo la conquista turca, la città di Costantino assunse altri nomi: Gosdantnubolis, Istanbul, Zarigrado, Kushta, Rumiyya al-kubra, la Città del Pellegrinaggio, la Casa del Califfato, il Trono del Sultanato, la Casa dello Stato, l’Occhio del Mondo, il Rifugio dell’Universo, la Porta della felicità. Santa Sofia fu tramutata in sfolgorante moschea, le rovine del Palazzo imperiale divennero la straordinaria reggia ancora oggi detto Topkapi, da Top Qapi, Porta del Cannone.
Affacciata sulla punta orientale della penisola, dove confluiscono il Bosforo, il Corno d’Oro e il Mar di Marmara e l’Europa s’incontra con l ’Asia, la reggia della Sublime Porta toccò l’apice dello splendore un secolo dopo la Conquista, sotto Solimano il Magnifico: il nemico di Carlo V, il sultano che i poeti ottomani chiamavano «Imperatore del Mondo e Messia dell’Ultima Era».
Gli inventari degli arredi di Palazzo condotti nel Seicento elencano per la sola sala del trono, e solo quanto ai decori tessili, centinaia di voci: cuscini, tappeti, imbottiture, trapunte di gemme, tessiture d’oro zecchino. Nel 1799 la moglie dell’ambasciatore inglese Lord Elgin, l’esportatore dei marmi del Partenone, riuscì, travestita da uomo, a introdursi in quella sala al seguito del marito. Il canapè su cui sedeva in penombra il Mostro - così Lady Elgin chiamava Selim III – assomigliava molto, scrive, a un letto inglese, con la differenza che il copriletto era tutto incrostato di perle gigantesche e accanto a sé il sultano aveva un calamaio formato da un’unica, enorme massa di diamanti.
Nel secolo in cui le buone maniere si insegnavano come l’equitazione e il greco, i modi perfetti dell’élite ottomana impressionavano talmente gli esponenti della nobiltà occidentale che Lord Charlemont, in visita a Istanbul nel 1749, attribuì ai visir una superiorità assoluta e oggettiva perché riusciva a sembrare non artefatta: ogni gesto dei nobili ottomani era un misto di scioltezza, grazia e dignità, a differenza - aggiungeva - della petulante aria di superiorità dell’aristocrazia francese.
Al principio dell’Ottocento la capitale della Sublime Porta è ormai nel pieno della decadenza, ma davanti alle mura soffocate dall’edera, presidiate ormai solo dalle capre, Byron può ancora scrivere: «Ho visto le rovine di Atene, di Efeso e di Delfi; ho attraversato gran parte della Turchia e molti altri luoghi d’Europa e alcuni dell’Asia; ma non ho mai visto un’opera della natura o dell’arte che mi impressionasse tanto quanto lo scenario che mi si è aperto dall’uno all’altro estremo dell’orizzonte quando ho avuto davanti agli occhi il Corno d’Oro».
Nell’ultimo secolo ottomano il cielo notturno continua a riflettere lo splendore dei re dei re. A ogni festa e celebrazione tra un minareto e l’altro vengono tese scritte formate da fiammelle luminose, su ogni barca si accendono multicolori lanterne di carta che illuminano tutto il Bosforo. I palazzi sembrano incendiarsi delle migliaia di riverberi che sconvolsero il favolista Hans Christian Andersen, il quale, assistendo nel 1841 alle luminarie in onore del Profeta, si senti avvolto - scrisse - in un incantesimo di luce e ingoiato in un’unica foresta di fiamme.