Il paradosso della santa follia
Lettere da Bisanzio
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Secondo Teodoro Prodromo, poeta maledetto del millecento, i costantinopolitani sono tutti o artisti o briganti. Quando Stevenson, alla fine del milleottocento, parti per New York, i compagni di viaggio lo avvisarono di non rispondere a nessuno che lo apostrofasse per strada, altrimenti sarebbe stato picchiato e rapinato, e di barricarsi nella camera d'affitto per evitare di essere spogliato di tutto. L’eparco, e cioè il sindaco di Costantinopoli, aveva alle sue dipendenze un efficiente corpo di polizia ma faticava già ai tempi di Giustiniano a mantenere l’ordine pubblico.
Procopio racconta un episodio. Nell’ippodromo l'imperatore è atteso ed è in ritardo. Gli azzurri raggiungono i palchi dei verdi, scandiscono: «Licenza d’incendio - nessun verde in giro». I verdi si riversano al centro dello stadio e danno inizio al lancio delle pietre: «Licenza d’incendio - nessun azzurro in giro». Seguirà, nella notte, una spedizione punitiva antiazzurra. Gli scontri fra bande avrebbe causato la morte di decine di migliaia di manifestanti nella rivolta Nika, anno 532, trentamila morti nel solo ippodromo.
La vocazione bizantina all’autodistruzione di massa non è esaurita dall’assemblearismo e neppure dal gusto della mobilitazione permanente. Il movimento ascetico è un immenso suicidio collettivo. L'opposizione al mondo e a qualsiasi sua logica - la logica del potere, del successo, degli onori, ma anche la logica in sé, ciò che dà senso - è l’imprinting della santità bizantina, nasce dalla fuga dei Padri del deserto, gli anacoreti del III e lV secolo. A-na-choreo vuol dire, in greco, «me ne vado». Deserto in greco è eremos, vuol dire «vuoto». Dalle visioni di Antonio nel deserto della Tebaide e dall’ascesi di Evagrio si arriva in dieci secoli alla preghiera perpetua che svuota lamento dal «peccato del pensiero» nei santi esicasti bizantini del XIV secolo e oltre. Si arriva a Nil Sorskij, alla versione slava di quello sciame di antichi santi che è la Filocalia. Si arriva al Pellegrino russo, a Leskov, con i suoi mistici vagabondi e Vecchi Credenti, a Leont’ev, che teorizza «l’ascetismo bizantino accanto all’immoralismo estetico», allo staretz Zosima dei Fratelli Karamazov, e oggi alla musica di Arvo Pärt, espressione di un nuovo esicasmo collettivo.
Da quel rifiuto del mondo alla ricerca di un vuoto esteriore quanto interiore discende la «santa follia» della Chiesa d’Oriente, che dà il titolo alla raccolta appena uscita da Piemme (a cura di Francesco Maspero). Eremiti anoressici, masochisti neomartiri, stiliti rannicchiati in cima a una colonna - ma non per questo folli: anzi, tanto più santi e saggi. Perché «folli», per la Chiesa ortodossa, erano solo i saldi, santi-briganti, santi-trickster come Simeone il Pazzo o Andrea (si veda la rassegna sistematica appena uscita nel primo volume dell’Enciclopedia dei Santi. Le Chiese Orientali, curato per Città Nuova da un esperto bizantinista come Juan Nadal Cahellas).
Tutti gli altri in realtà non sono folli, perché folle, nel codice dell’infinita letteratura agiografica bizantina, è solo chi trova al mondo un senso. Solo a chi non partecipa dell’anima pessimista dell’uomo ortodosso- essenziale al romanzo russo fino al nichilista di Dostoevskij o al suo Idiota - il santo bizantino appare «folle» e eretico: perché anarchico, perché gnostico, perché spregiatore del mondo.