I dittatori democratici
Lettere da Bisanzio
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«Non ci sarà un altro Cesare!», grida Antonio alla fine del celebre discorso che gli fece pronunciare Shakespeare nel Giulio Cesare. Non è vero: ve ne sarà una successione infinita, come già dalle parole di Bruto e Cassio, pochi versi prima, era stato profetizzato. La parola caesar, grecizzata in kaisar nell’impero di Bisanzio, darà luogo, in quello della Terza Roma, al nome tsar. Attraverso la storia dell’impero romano-bizantino, il mito cesarismo attraverserà i secoli fino al grande avversario della politica «bizantina» di Mosca, Bonaparte, e ai dittatori del Secolo Breve. Un mito che sempre si prolunga in quello del cesaricidio, tante volte replicato nella storia del potere bizantino e poi di quello russo.
«Non sono antidemocratico, ma ademocratico, perché la democrazia non è mai esistita, né ci sarà mai», ha scritto Gaetano Mosca nella sua introduzione alla Sociologia del partito politico di Ernesto Michels. L’autodefinizione di Mosca, che Luciano Canfora cita, potrebbe forse applicarsi, se non all’autore, alla riflessione centrale della monografia su Giulio Cesare appena uscita da Laterza con il provocatorio sottotitolo: E dittatore democratico.
Ha scritto Leopardi nello Zibaldone (22-23): «Cicerone predicava indarno, non c’erano più le illusioni di una volta, era venuta la ragione, non importava un fico il vantaggio degli altri, dei posteri ecc., eran fatti egoisti, pesavano il proprio utile, non più ardore, non grandezza d’animo, l’esempio de’ maggiori era una frivolezza in quei tempi tanto diversi: così perderono la libertà, non si arrivò a conservare e difendere quello che pur Bruto per un avanzo d’illusioni aveva fatto, vennero gli imperatori, crebbe la lussuria e l’ignavia, e poco dopo, con tanto più di filosofia, libri, scienza, esperienza, storia, erano barbari. Perché la ragione, facendo naturalmente amici dell’utile proprio, e togliendo le illusioni che ci legano gli uni agli altri, scioglie assolutamente la società, e inferocisce le persone».
D’altra parte, «quello che lasciarono i pugnali / La povera cosa, un uomo morto», descritto nei versi di Borges, che a loro volta riprendono il Giulio Cesare di Shakespeare, è il corpo di un dittatore, ma anche il simbolo del fallimento dì un’utopia politica in cui un potere interclassista vuole trascendere te fazioni di un sistema politico paralizzato dal continuo conflitto. Solo in questo senso può andare a Cesare la simpatia dell’autore, il cu i pensiero e orientamento storiografico si colloca tra i «pessimisti repubblicani» razionalmente avversi al mito di Cesare - gli illuministi critici, i liberali scettici, i marxisti indignati, da Goethe a Gibbon, da Ronald Syme a Bertold Brecht - e non fra i «provvidenzialisti», entusiasti, già a partire dalla propaganda augustea, di un Cesare semidivino fattore di storia, addirittura raggiante, come scrisse Mommsen, una «perfezione che lo storico incontra ogni mille anni e che non può tacere». Sottraendosi a questa discussione millenaria, Canfora assume una terza, difficile posizione, che oppone al pessimismo della ragione un ottimismo, se non della volontà, dell’utopia, una «simpatia per l’esperimento politico destinato a finir male», unita però alla consapevolezza, rafforzata dall’esperienza di questo secolo, della temibilità di un Cesare bellicista e genocida. «Siamo diventati troppo umani per non dover sentire ripugnanza ai trionfi di Cesare», aveva già scritto Goethe, e la frase è oggi di sinistra attualità.