I colonnelli e i bibliofili
Lettere da Bisanzio
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Nella Grecia degli anni Sessanta il regime dei colonnelli epurò il testo, politicamente eversivo, delle commedie di Aristofane, che invece nell’autocrazia di Bisanzio per un millennio non solo non subì mai la censura, ma fu incluso tra gli autori canonici, studiato nelle scuole, copiato dagli scribi, edito e commentato dai filologi. Oggetto di cura e culto istituzionali, fu consegnato alla modernità.
Se oggi possiamo leggere la commedia e la tragedia antica, Omero e Pindaro, Platone e Aristotele, è grazie non alla casuale e saltuaria virtù dei papiri ellenistici, che dei testi classici hanno trasmesso una frazione minima, ma alla classe dirigente bizantina. Spesso identificandosi con l’élite intellettuale (Fozio, l’autore della Biblioteca, divenne patriarca di Costantinopoli, Psello fu Console dei Filosofi e primo ministro), questa classe si fece carico di tutta o quasi la tradizione manoscritta della letteratura poetica, storica e filosofica classica.
Fu un peso culturale anche doloroso, opprimente, per uno scrittore spesso difficile da conciliare con la creatività, «La parola è finita, tutto è già stato detto», scriveva nel Trecento il critico letterario e potente dignitario Teodoro Metochita, che dall’allievo Niceforo Gregora vene definito una biblioteca vivente» e che oggi appare con un turbante già turchesco nei mosaici di San Salvatore in Chora, l’odierna Kariye Djami, a Istànbul. Attraverso le tappe di un umanesimo orientale scandito in più rinascenze (studita e macedone, comnena e paleologa), gli intellettuali bizantini trasmisero la loro eredità direttamente agli umanisti dell’occidente, promuovendo anche quaggiù la riscoperta dei classici in una Rinascenza, che per loro fu l’ultima, per noi la prima.
Fozio faustiano ed erasmiano, recluso nell’oasi atticista del patriarcato. Il platonico e vanesio bibliofilo Areta. Costantino Porfirogenito, l’enciclopedista. L’esoterico Psello; il tendenzioso Tzetza; il prolifico Eustazio. Dopo l’esilio di uomini e scuole seguito alla Quarta Crociata (vera rovina dell’impero di Bisanzio prima e più dei Turchi), Massimo Planude, il monaco, il poeta, il matematico, l’intellettuale che promosse alla corte paleologa il revival di Plutarco. Demetrio Triclinio, il mitico «primo autentico critico del medioevo», il grande editore del teatro antico.
Il nesso tra filologia e poesia non è casuale né labile, come hanno dimostrato gli studi sulla cultura alessandrina. Ossessionati dalla tradizione, dalla «biblioteca», gli intellettuali di Bisanzio condivisero la sindrome di Callimaco, insieme poeta e bibliotecario del Museo di Alessandria. Giorgio di Pisidia e Leone il Filosofo, Giovanni Mauropoda e Michele Coniata: i nomi dei filologi bizantini sono anche spesso nomi di poeti, seguaci di una versificazione colta e riflessa. Ma una cultura dominata dal peso della tradizione e dalla certezza che «tutto sia già stato detto» non è per questo decadente, se non vogliamo considerare tale anche tutta la nostra, a partire da Petrarca. Se la letteratura bizantina viene ancora considerata tale è in virtù di un pregiudizio riguardante, prima ancora che quel misconosciuto millennio, una nozione vitale per il nostro mondo occidentale presente: quella di Decadenza.