Allegoria, paideia e crostacei
Lettere da Bisanzio
Articolo disponibile in PDF
«Alcuni, davanti alla debolezza intrinseca delle scritture giudaiche, anziché respingerle del tutto hanno preferito trovare loro una chiave di lettura (lysin), e si sono dati a interpretazioni arbitrarie e inconciliabili con quanto vi è scritto... Le loro esegesi millantano per simboli le cose che Mosé ha detto con la più banale chiarezza e le fanno passare per oracoli di misteri occulti, stregando così, per affettazione virtuosistica, il senso critico dell’anima... Questo peculiare tipo di assurdità viene da un uomo che anch’io, quando ero molto giovane, ho incontrato, un uomo altamente stimato allora e tuttora celebre per gli scritti che ha lasciato: Origene... Allievo di Ammonio [Sacca, di cui fu discepolo anche Plotino], ricavò dal maestro il vantaggio di una grande dimestichezza coi testi filosofici... Pur essendo greco e formato nella paidèia ellenica, si orientò verso l’avventura barbarica... E benché ellenico e cioè pagano nelle opinioni sulla natura e sul divino, applicò la filosofia greca a miti estranei».
I "miti estranei" ai quali fa riferimento il neoplatonico, ascetico Porfirio, uno degli ultimi grandi filosofi pagani, sono la dottrina cristiana e in particolare i biblia, la Bibbia. «Infatti, convivendo incessantemente con Platone, frequentando gli scritti di Numenio, dì Cranio, di Apollofane, di Longino, di Moderato, di Nicomaco e dei grandi pitagorici, e servendosi anche di filosofi stoici come Cheremone e Cornuto, Origene mutuò da loro l’interpretazione allegorica dei misteri pagani, che applicò, appunto, alle scritture giudee».
(Questa testimonianza di Porfirio è tramandata da Eusebio di Cesarea, Storia ecclesiastica, VX 19,4-8).
Se ogni tradizione presuppone un testo sacro, Origene fu il primo a intrecciare la lettera cristiana alla tradizione sapienziale platonica (Stremata, "intrecci", si intitolava una sua grande opera perduta); fu il fondatore della civiltà bizantina del commento, perpetuata nell’Umanesimo e nel Rinascimento, prolungata nell’erudizione del Grand Siècle e morta solo nel Settecento col nascere della nostra civiltà della critica.
Origene, già per questo, fu forse il più grande gnostico cristiano: perché il commento di un testo sacro presuppone un mistero da decifrare, non solo e non tanto metafisico, ma precisamente insito in quel testo, o anzi costituito dal testo stesso, tanto da instaurare una vera e propria teologia del Libro; come Origene fa nel Perì Archòn, una storia cosmica dello spirito ricalcata sul mito gnostico della caduta. Il Libro è Logos Mediatore, sophia e ponte fra il divino inconoscibile e perfetto e l’imperfetto, caduco spirito umano, che si distacca dall'unità originaria in cerchi di raffreddamento progressivi (psyché da psychesthai, "raffreddarsi", secondo la paretimologia di Origene) fino a ottenebrarsi nella materialità dei corpi, per poi purificarsi e avviarsi all’eterno ritorno all’Uno. Qui non si prevede, come invece nel giudizio universale cristiano, alcuna dannazione eterna: per il neoplatonismo gnostico la pena, l'inferno, è già il mondo.
Un po’ come Lafcadio nei Sotterranei del Vaticano di Gide contrappone "crostacei" e "sottili", nella sua paidèia Origene si oppone a coloro che non superando l’antropomorfismo dei resoconti biblici non ne decifrano i messaggi velati. La Bibbia sondata dagli Exapla e dai Tetrapla è detta da Origene un "mare di misteri" indecifrabili anche dal senso comune del filosofo: «Quale uomo ragionevole crederà che il primo, il secondo e il terzo giorno fossero, di giorno e di notte, senza luna, senza sole e senza stelle, e che il primo fosse addirittura senza cielo?».