A lezione dagli ultimi monaci
Lettere da Bisanzio
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Il monachesimo è sempre identico a se stesso, come se esistesse un’informazione genetica del monaco, una razza a parte; o almeno un segno, anzi un insieme di segni, di tratti ricorrenti, la cui memoria a volte ritorna a distanza di luoghi e generazioni. È inoltre un linguaggio, non necessariamente e anzi quasi mai verbale, ma interiore, gestuale, sensibile, a volte extrasensibile. Nel monachós, che è "solo" (mónos), nell'anacoreta, che esce dal mondo (àna-chréo, "andarsene"), la gerarchia delle doti è capovolta rispetto a quelle del mondo. Così il mondo a volte equivoca: prende per masochismo il coraggio, per pigrizia la forza, per pazzia la saggezza e per idiozia la comprensione non allenata delle cose; come quella dei salói bizantini, i santi sciocchi, che rivivranno nella cultura russa prima e dopo Dostoevskij.
I monaci sono uguali dal primo all'ultimo, e specialmente l’ultimo è uguale al primo, i monachói di oggi éschatoi, estremi in lotta contro le tenebre del progresso, somigliano ai Padri del deserto, ai primi asceti in fuga dalla civiltà tardoantica; non in nome di un bene individuato e accertabile, perché, come scrive Gregorio di Nissa, «più la grazia riempie e più rinvia a una presenza inaccessibile»; quindi, quasi mai con fanatismo. Antonio. Paolo. Ilarione. Malco, Macario. Evagrio, Cordone. Arsenio. Basilio. Paola. Macrina, Pacomio. Palladio, Giovanni Clima-co, Massimo il Confessore, Isacco di Ninive. La linea passa per gli esicasti bizantini e arriva a Nil Sorskij. Alla versione slava della Filocalia, al Pellegrino Russo, a Leskov, a Leont’ev, fino allo staretz Zosima dei Fratelli Karamazov e all'esicasmo collettivo odierno, echeggiato nella musica di Arvo Pärt.
Ma vi sono altri monaci «seduti alla tavola del nulla», coetanei di Nietzsche e Dostoévskij, nipoti di Kierkegaard, dotati del pessimismo assoluto che è solo dei mistici. Tra la fine dell’800 e l’inizio del ’900, nell'età che nella letteratura europea è detta del decadentismo, Teresa di Lisieux a occidente e a oriente il suo contemporaneo Symeon Ivanovich Antonov alias Silvano, staretz di San Panteleimon, il monastero russo del Monte Athos, alla vigilia e agli esordi del terrore comunista, scrivono e vivono in una condizione infera. Già sosteneva il pagano Giamblico che l'inferno non esiste perché l’inferno è il mondo. «Tieni l'anima agli inferi e non disperare», è il detto di Symeon/Silvano, che ha intitolato il convegno di sabato e domenica scorsi al monastero di Bose per il sessantesimo della sua morte.
I monaci della fine del mondo antico vivevano la ricerca della quiete interiore dinanzi a una fine della storia, che era l'inizio di una storia nuova, di un’altra età. Oggi l’éschaton sempre più vicino, non nel senso di una vera fine apocalittica, ma della nostra Apocalisse intra-storica, come l'ha definita Olivier Clément: demografica, ambientale ed ecologica (anche se il mondo cattolico sembra in ritardo nel preoccuparsene) oltre che intellettuale e spirituale.
«Noi ora siamogli ultimi monaci. Ma anche ai giorni nostri ci sono degli asceti nascosti alla nostra vista. Non compaiono infatti miracoli visibili ma nella loro anima ogni giorno avvengono grandi prodigi, non visti dagli uomini», ha scritto Silvano Athonita. C’è stato, ad esempio. Thomas Merton, che si considerava, come scrive nell'introduzione alla sua raccolta degli Apophtegmata Patrum, un Padre del Deserto americano postnucleare negli anni della corsa allo spazio e dei primi esperimenti atomici nell’atmosfera. Quasi negli stessi anni, e certamente non a caso, una raccolta simile di Detti e fatti dei Padri del deserto veniva pubblicata in Italia da un altro asceta nascosto di questo secolo, Cristina Campo.