Il blazer blu
Con cui Nikolaj Abramovic ha abbattuto il Muro. Del pregiudizio
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Prima della caduta del muro e nella luce baltica della sua città, che prendeva il nome allora da Lenin e non di nuovo da Pietro il Grande, i suoi pantaloni di terital grigiastro, la camicia a maniche corte sotto la giacca a vento sbiadita, perfino i calzini corti a righe e i vecchi mocassini traforati potevano sembrare normali, esotici perfino, quasi affascinanti. Come lo era lui, col viso ashkenazita dagli occhi azzurro pallido che scintillavano sempre di ironia. Nikolaj Abramovic appariva già allora più anziano della sua età, come capitava a chi, anche se figlio di un direttore d’orchestra, aveva vissuto oltre la cortina di ferro l'età della «stagnazione». Era il più grande tra gli studiosi della sua materia, storia antica, anche se essendo ebreo non gli era stato mai riconosciuto. A suo modo si contentava: un invito in Crimea, un congresso a Tallin. Come ospite, nell'appartamento senza bagno dove abitava con una decina di familiari, un gatto e centinaia di libri in un formicaio di periferia, era squisito. Aringa e vodka in tavola non mancavano mai. Ma quando cadde il muro, fu un altro discorso.
Quando cadde il muro Nikolaj Abramovic fu tra i primi studiosi postsovietici a essere invitato non più in Crimea né a Tallin, ma in una grande città del misterioso-occidente, poi in un'altra, e in un'altra ancora. L’allegria con cui si era imbarcato la prima volta sull’Iliuscin dai bei sedili larghi anche se un po' scrostati, la valigia quadrata di fibra in pugno e la tracolla di nylon verdastra, si era venata, alla quarta mèta, la più ambita, di un'impercettibile inquietudine. «Sono un povero barbaro scita arrivato alla Città eterna», sorrideva alla giovane ospite contemplando coi chiari occhi celesti le rovine della civiltà che aveva tanto studiato. Ma quando lei gli porgeva un biglietto del tram, se lo vedeva alla sera restituire intatto da un Nikolaj Abramovic sfinito. «Ho camminato chilometri», diceva. Ma non avrebbe mai speso per un passaggio in tram la cifra che vedeva stampigliata su quel rettangolo di carta: equivaleva a un pasto per tutta la sua famiglia, e non a base soltanto di siliotka.
Fu così che sondando pian piano il vago malessere che leggeva nel suo sguardo, l'ospite italiana indusse il collega russo a confidarsi almeno in parte. Si era sentito un pò a disagio al cocktail dell’università svedese. Nella metropoli tedesca i colleghi avevano esitato a invitarlo all'opera. Le cameriere arabe della foresteria parigina delle Grandes Ecoles lo avevano squadrato senza neanche provare a chiedergli la mancia. «Non avrei certo potuto dargliela», rideva limpidamente. «Ma come facevano a saperlo? Ho davvero l'aspetto di un barbaro?».
«No di certo», lo aveva rassicurato la collega italiana, tutto era, Nikolaj Abramovic, fuorché un barbaro. Era in effetti l'uomo dalle maniere naturalmente più educate che avesse mai conosciuto, sembrava emerso da un altro secolo, da un racconto di Turgenev. Ma questo non poteva dirglielo, come non poteva spiegargli veramente la reazione degli occidentali al suo aspetto. Non era povertà quella che vedevano in lui, almeno non solo. Era desolazione, era deprivazione, era disinformazione, era un'intera, irrazionale storia di repressione delle risorse umane e di depressione delle tecnologie - in particolare di quelle tessili. Doveva andare nel campus più esclusivo d’America. Lui non sapeva, ma lei sì, che avrebbe probabilmente ottenuto un incarico. Ma non, oh, non vestito in quel modo. Riuscì a insinuarglielo, giocando con la sua ironia. E lui, con una risata liberatoria, si era vuotato le tasche. Avevano contato i pochi dollari che aveva. Non bastavano certo a rivestirlo. Equivalevano a un pasto all'osteria di fronte, quella dove friggevano nella carta i filetti di baccalà. Lei ci pensò tutta la notte. Nikolaj Abramovic aveva accettato la sua ospitalità, ma, oltre a quella, neppure una colazione. Tornava a casa la mattina, quando lei si svegliava, tutto allegro, con un pomodoro, un porro e un minuscolo pezzo di pane, e si offriva di imbandire il pranzo per entrambi. Non osava immaginare quanto incidessero sulla sua contabilità postsovietica quei minuscoli acquisti fatti non al mercato più vicino ma a quello meno caro, che aveva subito scovato. Mai e poi mai avrebbe accettato un regalo da lei. Un capo, un capo solo doveva bastare. Era un uomo bello, intelligente, gentile. Ma quale capo comprare?
Le scarpe? Certo contano, ma forse in America non tanto. La cravatta? Se ne può sempre fare a meno. Una camicia dal colletto non scopertamente anni Settanta? Chissà, magari quel taglio a banana sarebbe presto diventato un vezzo. E anche il terital grigiastro dei pantaloni poteva avere un’aria non casualmente casual. E l'orologio dal bracciale dorato si poteva nascondere, e la tracolla, abolire.
Quando si svegliò, quella mattina, aveva le idee chiare. Lo portò di buon’ora in una delle mercerie più buie del Ghetto. «Un blazer blu», chiese, «il migliore». Lui la guardò esterrefatto: «Il migliore? Voglio il peggiore!». «Ma c'è una differenza minima di prezzo». «Minima per voi, non per noi». Fu così che il blazer blu con cui Nikolaj Abramovic uscì quella mattina tutto fiero, non indossandolo per non sgualcirlo, era probabilmente il più economico di tutta la Città eterna. Un fondo di magazzino, da lei abilmente prescelto per la forma non troppo arrotondata dei risvolti, miracolosamente non imbottito di spalle, perfettamente adatto alla sua figura curva. Lei era un po’ incerta sul punto di blu, perché le pareva un filo troppo chiaro. Ma l’anno dopo, quando lo reincontrò alla mensa della lussuosa fondazione di Georgetown, si rallegrò in cuor suo. Al sole limpido dell’estate indiana, quel blu meticcio, ebraico, era diventato il più puro, il più anglosassone dei blu, e Nikolaj Abramovic sembrava uscito dal più tradizionale e solido dei club.
Continuò a incontrarlo, nei vent'anni che seguirono la caduta del muro di Berlino. Ora a Copenhagen, dove una consumazione al bar era tanto cara che il vecchio amico le sedeva accanto guardandola mangiare senza neppure ordinare un bicchier d’acqua. Ora a Roma, dove tornava, su suo invito, regolarmente. Ora in Russia, dove, su invito di lui, lei a volte andava. Il blazer blu era diventato inseparabile dalla figura curva, amabile, progressivamente incanutita, sempre ironica su ogni privazione che l'Occidente, ma ormai anche il suo Paese, riservava a un intellettuale russo. Quel blazer blu affermava, con pacata eloquenza, la sua superiorità a tutto questo, il suo silenzioso orgoglio. Gli era ormai cucito addosso, e nessuno, proprio nessuno avrebbe mai potuto immaginarlo senza. «Lo storico russo, dici? Quello col blazer blu?», si rimbalzavano da un capo all’altro del mondo le segreterie universitarie.
Quando, l’altr’anno, Nikolaj Abramovic, il cuore debole sempre più provato dalla sua integrità di vecchio russo nell’incalzare dei nuovi, è morto, i suoi allievi mi hanno invitato a celebrarlo nel bosco di betulle dove è sepolto, a pochi metri dal Baltico scintillante e dalla tomba della sua poetessa preferita, Anna Ach matova. Nel gelo è stata versata la vodka nei sottili bicchieri e la vedova ha tirato fuori i piroscki, e tutti abbiamo mangiato e bevuto in suo onore. Poi sono cominciati i discorsi, e ognuno si è presentato per ciò che era stato per il defunto. Un compagno di scuola decisamente brillo, un vecchio commilitone con la coccarda, lo studente migliore, il collega tedesco hanno fatto a turno un passo avanti e hanno parlato sinceramente. Quando è toccato a me, ho scosso la testa. Il mio russo non era abbastanza buono per dire con la dovuta serietà e sincerità: «Io sono quella che gli ha fatto comprare il blazer blu».