Il senso della vita passa anche dalla contraccezione
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Cara Fiorenza,
sembra sia passata un'eternità da quando - ricordi? - le donne giravano con gli zoccoli neri gridando: «L'utero è mio e lo gestisco io»». Lo pensavamo cosi ovvio che tanta furia nel proclamarlo ci appariva persino superflua. Con il postfemminismo la parola "utero" è stata sostituita da "corpo" e anche lì ci pareva una banalità. Poi i tempi sono cambiati.
Se la chiesa cattolica avesse allora proclamato che il corpo femminile è un bene collettivo, avremmo trasecolato. Adesso, nella gara tra destra e sinistra, il fanatismo di cui venivano accusate le femministe si è trasferito nei Teocon, cosi dogmatici in tutto e pronti a interdire il passo alla scienza. Ci si è persino chiesti se la diciassettenne milanese che ha dolorosamente abortito un feto con malformazioni gravissime non dovesse venire costretta a continuare la gravidanza, come voleva sua madre. Veronica Berlusconi ha di recente dichiarato di aver abortito al settimo mese un feto che «non sarebbe nato sano». Ma è contro la povera minorenne che molti sono insorti a difendere «la vita del nascituro». An ha perfino proposto di abbassare la scadenza temporale dell'aborto terapeutico.
Ma il vero problema è un altro. Proprio mentre alcuni settori della chiesa si propongono di ammettere l'uso del preservativo, i nostri politici, a forza di improvvisarsi teologi e disquisire sull'anima dell'embrione, hanno perso di vista l'unico problema concreto: la contraccezione, soprattutto nel mondo giovanile. Lo stesso mondo che, privo di riferimenti, si è stretto in massa attorno al cadavere del papa. Ma, si sa, c'è sempre chi è più realista del re. E sempre a spese dei più deboli.