Perché ci stupiamo della crudeltà femminile?
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Cara Fiorenza,
erano settimane che per promuovere le quote rosa elettorali i media si avventuravano in sdolcinate dichiarazioni sulle qualità “intrinseche" alla natura femminile: tolleranza, amorevolezza e vocazione all'accudimento del vivente, attitudine a una gestione del potere destinata a mitigare l'aggressività in politica o perfino a abolire le guerre. Ed ecco, quasi per contrappasso, le foto delle torturatrici di Bagdad.
Altro che rosa, altro che accudimento. Janis Karpinski, la generalessa a capo del carcere di Abu Ghraib, si proclama all'oscuro dei fatti, ma è difficile crederle davanti alla faccia trionfale e sorridente della sua soldatessa Lynndie England in posa accanto ai corpi dei prigionieri iracheni seviziati sotto l'obiettivo di Miss Maya. Il mondo è giustamente scandalizzato, ma ingiustamente sorpreso. La crudeltà femminile è rappresentata nei miti di tutte le antiche religioni non dominate da un unico dio maschio: dalle Erinni greche alla Kali indù.
Dovunque sia esistito un potere femminile, la crudeltà femminile è esistita sempre: dalle corti rinascimentali ai conventi di cui ci ha parlato il film Magdalene, dalle kapò naziste a militanti della Resistenza come Marguerite Duras. Ed è presente nella nostra vita di tutti i giorni, più spesso subdolamente, perché l'accesso delle donne al potere è ancora marginale e indiretto, ma non diversamente da quella maschile. Entrambe infatti partecipano in maniera identica dell'essere umano.
E, come scriveva Schopenhauer: «In spietata crudeltà l'essere umano non cede a nessuna tigre e a nessuna iena».