Furono colpiti da napoleonica attrazione
Victor Hugo quasi vi nacque ma Alexandre Dumas la visitò addirittura con il futuro Napoleone III. E poi Gregorovius, Huxley, Dylan Thomas, Giono...
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Quando arrivò all’Elba, nel 1803, Victor Hugo aveva un anno. Era un bambino fragile, dalla testa troppo grande in proporzione al corpo. Si nascondeva negli angoli della casa di Portoferraio, dove insieme ai fratelli aveva seguito il padre, generale napoleonico. La madre, in crisi col marito, li avrebbe raggiunti solo in un secondo tempo. Ma appena arrivata sull’isola avrebbe realizzato che il marito aveva una relazione con un’altra donna. Sarebbe ripartita, con i figli, quattro mesi dopo.
Hugo è l’unico scrittore moderno passato per l’Elba prima di Napoleone Bonaparte. Alexandre Dumas la visitò nel 1842 insieme a Luigi Napoleone, il futuro Napoleone III. Lo scrittore trentanovenne e il principe diciannovenne affittarono una piccola barca nel porto di Livorno. Si chiamava “Duca di Reichstadt", come il figlio di Napoleone, morto precocemente. Forse per questo l’imbarcazione rischiò dieci volte di naufragare durante il periplo che doveva portare la strana coppia, dopo l'Elba, a Pianosa, alla Gorgona, a Montecristo e infine in Corsica.
I due visitarono l’isola puntigliosamente. Dumas apprezzò la biblioteca in cui Bonaparte durante l'esilio si era chiuso a lungo per lavorare alle sue memorie. La presenza di Napoleone aveva richiamato tutti i curiosi d’Europa nell’”isola dai ricordi giganteschi", come la chiamò Dumas. I prodotti locali non bastavano più a sfamarli e l’attività commerciale nata da quel peculiare turismo aveva arricchito l’isola. “Napoleone in esilio divenne una fonte di prosperità per il paese che l’aveva ospitato".
Durante una partita di caccia a Pianosa. Alexandre Dumas e Luigi Napoleone usarono due pugnali identici, con un’unica variante: quello di Dumas recava il suo stemma, quello che aveva donato al giovane compagno di viaggio le fatidiche lettere N.B., Napoleone Bonaparte.
In una sosta tra uno sparo e l’altro, Dumas scorse un’isoletta. Domandò al guardiacaccia come si chiamasse e chi l’abitasse. Solo greggi di capre, gli fu risposto, risiedevano su quello scoglio. Lo scrittore promise al principe che vi avrebbe ambientato il suo prossimo romanzo e che lo avrebbe intitolato “L'isola di Montecristo’’.
Dieci anni dopo, nel 1852, sbarcò all’Elba Ferdinand Gregorovius. Il viaggio sul piroscafo “Il Giglio" era durato cinque ore. Lo storico tedesco fu colpito dall’imponenza delle rocce dell’isola. “La riva è ripida e di una tetra maestosità”. Ammirò lo slancio dell’“ardita" Torre di Giove e il “magnifico golfo di Portoferraio", chiuso a anfiteatro da alte montagne. “Misi piede nella città col sentimento di chi entra nel regno idilliaco della storia”.
Tutto gli sembrò festoso. Il giallo chiaro della cittadina, “così graziosamente toscana", si armonizzava con il verde acceso della vegetazione e col celeste intenso del mare. Le piccole case erano linde e piene di fiori. “L’ape d’oro”, la locanda in cui dormì, era modesta ma luminosa e pulita, il vino locale discreto, l’albergatore onesto e di poche pretese. Passeggiando tra le piazzette e i giardini profumati, Gregorovius pensò che Cosimo de' Medici aveva già fatto tutto, lasciando da costruire a Napoleone soltanto “i castelli in aria di un nuovo impero". Un intellettuale tedesco, nell’Ottocento, non poteva avere simpatie napoleoniche. “Vedete lassù quella ridente casa gialla sotto il forte Stella? Che palazzo delle Tuileries per un re pigmeo! Sembra un padiglione da giardino”. La reggia era abitata dal comandante della fortezza, ma si potevano visitare alcune stanze. Nella camera da letto. Gregorovius scrutò, appese al muro, le scene della campagna d'Egitto. Tra i fiori e i limoni del piccolo giardino, immaginò Napoleone assorto nei suoi ragionamenti. “Come deve aver passeggiato indeciso in questo giardino, le mani incrociate sulla schiena, pesando sulla bilancia le sue scelte...".
I paesi dell’entroterra, costruiti in pietra ferruginosa, avevano “un aspetto scuro e fosco”, ma la soave campagna faceva "un magnifico contrasto con la selvaggia imponenza delle montagne". Un acquazzone costrinse Gregorovius a rifugiarsi in una minuscola fattoria della valle di Capoliveri. All'interno uomini e donne erano intenti a preparare i fichi da seccare. Ne offrirono allo straniero, insieme a fette di pane e a un eccellente aleatico.
Ascendendo sui monti di Marciana, Gregorovius vide davanti a sé la Corsica con i suoi boschi e le sue montagne e si domandò se anche Bonaparte non avesse guardato talvolta con nostalgia l'isola da cui era cominciata la sua avventura.
“L’alta diplomazia del 1814 aveva pensato, molto poeticamente, di esiliare il dio delle battaglie sull’isola del ferro". Le colline “rosse e nere” erano ricoperte di piante di aloe dalle rigide foglie blu acciaio. Intorno tutto era rosso per la polvere di ferro, compresi i volti e gli abiti degli operai, le zampe dei cani e i mucchi di minerale sulla spiaggia.
Suspense, il romanzo di Joseph Conrad rimasto incompiuto, avrebbe dovuto essere ambientato all’Elba durante il soggiorno dell'imperatore. Non sapremo mai, purtroppo, come Conrad avrebbe descritto l’Elba. Ci resta solo una vaga frase del protagonista: “Ogni cosa, in quell’isola, ha un suo fascino".
L'eco del destino storico dell'Elba non si spense mai. Héctor Berlioz, durante una vacanza in Italia, udì il racconto di un vecchio marinaio. A vent'anni, a Napoli, si era imbarcato su un veliero, era rimasto in mare tre giorni e due notti e alla fine era approdato in un’isola remota “dove si pretende sia stato esiliato Napoleone e che i locali chiamano Elba". Berlioz si commosse e annotò l'episodio nelle sue memorie.
“La terra era mediterranea, un frammento di Riviera completamente circondato dall’acqua. In una parola, l'isola d’Elba”. Così apparve l'Elba a Aldous Huxley negli anni ‘30. “L’odore di pesce e il ricordo di Napoleone", scrive, si avvertivano ovunque. Forse per questo, pur sentendosi in colpa, Huxley non aveva voglia di visitare la casa dell’Imperatore. Ma, mentre continuava a inerpicarsi senza mèta per le vie di Portoferraio, passò davanti all’antica porta. Non la varcò. Si volse a guardare, invece, la modernità del golfo.
Da un gruppo di altiforni si levavano tre camini “alti come i campanili di una cattedrale". Tre enormi gru erano chine sul blu metallico dell’acqua. Tutto, anche la terra “era nero come la fuliggine. Nero contro il cielo, contro le montagne d’oro glauco, riflesso nero nell’acqua lucente". Era una visione talmente drammatica che avrebbe voluto dipingerla, se mai ne fosse stato capace. Rimase a lungo a guardare le volute di fumo, “garza bianca in un cielo da Tiepolo”.
Nell’estate del 1947 Rio Marina ospitò Dylan Thomas, che aveva ottenuto dalla Society of Authors, su proposta di Edith Sitwell, una borsa di studio per viaggiare all’estero. Era un luglio caldissimo. Alloggiarono, lui e la sua famiglia, nell’allora “Albergo Elba". Il poeta si immerse nella vita locale. “Lucky Napoleon!”, “fortunato Napoleone!", scrisse agli amici. Le sue lettere sono piene di entusiasmo per il paese, la gentilezza dei suoi abitanti, la bontà della sua cucina casalinga. A metà agosto tornò nell’Oxfordshire, portando con sé un ricordo indelebile di quella vacanza. Jean Giono visitò l’Elba nel 1962, durante una crociera. L’isola gli piacque, anche se gli parve “non avere la sontuosa bellezza della Corsica". I pescatori gli sembrarono “ingenui, ospitali e arroganti come doveva essere la popolazione degli scali marini dell'Odissea". Mangiavano polipi al vino e l'odore dei polpi aleggiava ovunque quanto la presenza del Corso, così pesantemente, scrive, che si apprezzava l’ironico cartello di un ristorante, con su la scritta: “Qui Napoleone non è mai venuto".
A Giono piacque molto, comunque, la villa dell'Imperatore. Adorò la sala egiziana e le terrazze a piombo sul mare. Diede una piccola mancia al custode per farsi lasciare solo nella biblioteca. Sfogliò i volumi dell’esule. C’erano molti romanzi settecenteschi, qualche libro di matematica e un magnifico esemplare del Don Chisciotte in otto volumi. Che quell’opera fosse lì gli parve emblematico. Vagliò attentamente le pagine sperando che l’imperatore vi avesse annotato qualche pensiero: “Ahimè, no!". Mentre leggeva il capolavoro di Cervantes, Napoleone si preparava a lasciare le brezze dell’Elba per combattere contro i mulini a vento di Waterloo.