La donna sola in una stanza: è agonia o libertà
"Come difendere la propria libertà" di C. Thomas
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La donna è una creatura debole e incapace di provvedere a se stessa senza l'appoggio maschile, sosteneva a metà dell'Ottocento un progressista come lo storico Michelet. Se la donna «normale», cioè maritata, è già, secondo Michelet, una creatura fatta per la servitù, dalle possibilità di sopravvivenza problematiche, la donna sola, svincolata da ogni sostegno sociale, è destinata inesorabilmente alla catastrofe. Gracile, il lavoro fisico la distrugge. Incapace di prolungato sforzo intellettuale, lo studio la fa ammalare. Sono davvero inquietanti le pagine con cui Chantal Thomas, filosofa e accademica francese, illustra la perdurante deformazione dell'immagine femminile in «Come difendere la propria libertà», uscito in Italia per Dedalo a cura di Anna Lanzi. La donna, si accora Michelet, non è fisicamente in grado di sostenere gli esami indispensabili a una carriera: «Bisognerebbe lasciare a ognuna la scelta del giorno dell'esame. Per molte la prova è terribile e senza questa precauzione possono correre pericolo di morte». Una normativa specifica parrebbe indispensabile, perché le donne riescano in una qualsiasi carriera. Ed è a questo punto che affiora l'incubo della donna «sola in una stanza». Priva del sostegno esterno, non può che «marcire nella pigrizia» e naufragare nella frustrazione. Il tentativo di superare i limiti del suo sesso la consegna a una «lenta agonia». Essere sola è «una maledizione, una tara». Scrive Michelet: «La donna sola si riconosce al primo colpo d'occhio». Chissà se Virginia Woolf aveva in mente la descrizione della desolata stanza della Femme di Michelet quando, nel 1929, settant'anni dopo, scrisse «Una stanza tutta per sé», che diventerà il manifesto del femminismo intellettuale, della rivendicazione delle donne del Novecento a un'esistenza affrancata dai legami di solidarietà e di gerarchia tradizionali. L'emancipazione femminile, l'evento più importante della storia occidentale del ventesimo secolo, nasce da questa radice individualistica, libertaria, quasi anarchica. E' la solitudine, l'indipendenza, per contrappasso all'immagine di Michelet, che potrà consentire alla donna di esprimersi, di acquisire quella «libertà immateriale» senza la quale, scrive Virginia Woolf, nessuna opera, né maschile né femminile, può essere realizzata. Da Sibilla Aleramo a Marina Cvetaeva a Lou Salomé, le grandi icone della rivoluzione femminile novecentesca hanno sempre lottato per una singolarità che necessariamente coincideva con una luminosa, interiore solitudine: libertà non solo dalla soggezione al maschio e al peso della famiglia, ma anche da qualsiasi patto esterno. E' questo il senso del bel libro di Chantal Thomas, che ricorda come la libertà femminile non possa prescindere dalla solitudine e dall'anticonformismo. Ma questa è la linea di Virginia Woolf. Oggi le postfemministe sembrano ispirarsi piuttosto al realismo di Michelet. La «donna sola» si è dimostrata perdente. Se vuole vincere, deve uscire da quella stanza di Bloomsbury, che già lo storico francese aveva intuito sarebbe stata una prigione. Paradossalmente, nelle loro richieste di «pari opportunità», nei loro discorsi sulle «quote», postulando che per far riuscire le donne ci voglia una normativa specifica, le nuove femministe avallano, oggi, il pessimistico suggerimento di Michelet.