Il dandy monaco capriccioso
"Gli ultimi dandies" di Giuseppe Scaraffia
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Un dandy dell'Ottocento, Baudelaire, aveva fatto smerigliare la parte inferiore delle sue finestre per poter vedere soltanto il cielo. I suoi amici lo chiamavano «monsignore» perché vestiva sempre di nero: in lutto, come ogni dandy, per il suo tempo. «Vivo in un monastero senza mura e senza dio» annotò un dandy del Novecento, Drieu La Rochelle. La vocazione monastica all'essenzialità, esito estremo di una disperata raffinatezza, è connaturata al dandy. Monaco capriccioso, è un anacoreta in senso etimologico, un «assente sul posto», o uno stilita arroccato sulla sua colonna contro l'invasione della società di massa, come scrive Giuseppe Scaraffia ne «Gli ultimi dandies» (Sellerio), presentato alla Fiera del Libro da Carlo Fruttero. In questo senso la religione e il tempo, che hanno dominato la giornata del Lingotto, si integrano nella sua icona paradossale. Il suo rifiuto del mondo e del presente, la sua aspirazione sempre frustrata a un assoluto di bellezza e di grazia, sono quasi religiosi. E come ogni religiosità, anche quella del dandy sembra sparita dal mondo di oggi. Si può ancora essere dandy? Forse no, ha concluso Fruttero, in un'epoca in cui la ribellione al conformismo è divenuta conformismo a sua volta. Se i dandies non esistono più, uccisi metaforicamente, un assassinio vero, quello di Pim Fortuyn, è parso assumere in questi giorni la forza del simbolo: era un dandy, si è scritto, forse l'ultimo. Ma nessun dandy, ha chiarito Scaraffia, può affiliarsi a un partito politico, tanto meno guidarlo. II dandy disconosce e disprezza il potere, quale che sia. E detesta mostrare il suo volto: «Il più bel destino è avere del genio e restare ignoti», ammoniva Baudelaire. Se un nuovo Wilde vivesse oggi a Torino, terrebbe i suoi scritti ben chiusi nel cassetto. Non li consegnerebbe all'editoria di massa, non parteciperebbe mai alla Fiera del Libro.