Oh infelice chi legge!
Così parlo Bompiani, una mattina, a un'incredula studentessa. Che oggi racconta quella conversazione. E spiega perché l'editore, forse, aveva ragione
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Ho conosciuto Valentino Bompiani all'inizio degli anni 70, a Torino, inseparabile in genere, oltreché da Ninni, sua moglie, da Guido Piovene e da Mimì. Erano molto amici dei miei genitori. A volte il gruppo si trasferiva a Lerici, altre volte poco lontano, a Tellaro, da un altro grande amico, Mario Soldati. Poteva capitare di andare a casa di editori diversi: Mondadori, a Cap Ferrat, e subito vicino Rizzoli, e lì si incontravano gli autori di ciascuna casa editrice. Con tutti questi scrittori Valentino Bompiani aveva un rapporto di complicità e di amicizia che si sarebbe detto maggiore di quello dei rispettivi editori. Grandi editori che a me parevano antropologicamente diversi, chiusi in un mondo di lusso oppressivo, in ville-bunker progettate da famosi architetti ma — trovavo, con l'intransigenza di quell'età — male arredate e tanto vistosamente prive di libri quanto piene di signore truccate e cotonate. Un clima molto diverso dalla dorata, lieve eleganza anglosassone della casa di Lerici, completamente foderata di libri, in cui il vero lusso, il vero privilegio, il vero capitale condiviso era quello della lettura. I Bompiani ospitavano lì i loro autori e i loro amici, e fra i due stati, mi ero resa conto, non c'era gran differenza.
Con mio padre, che allora dirigeva “La Stampa”, il sodalizio era cominciato, credo, grazie alla curiosa e temeraria impresa di pubblicare a puntate, come supplemento di quel quotidiano, gli scritti inediti dell'infanzia di Leopardi. Li aveva scovati con infallibile fiuto Bompiani stesso, che aveva inviato a studiarli un'allora oscura professoressa di liceo, Maria Corti. Ogni settimana, Piovene li accompagnava con un testo di commento meraviglioso. Io avevo allora tredici anni, amavo la scrittura di Piovene quanto quella di Leopardi. Appartenevo alla tipologia dell'adolescente che divora libri, ben nota, credo, a Valentino Bompiani.
Una mattina, a Cap Ferrat, ero seduta con un libro in mano nella hall deserta dell'albergo dove eravamo scesi per le vacanze di fine d'anno, accanto a una grande finestra sul mare. Era molto presto, tutti dormivano, di malumore per il maltempo che precludeva ai più le passeggiate marine. A me la pioggia piaceva, e specialmente l'idea di poter leggere tranquilla per tutta la mattina. Avevo un libro di quelli che non si riesce a smettere di leggere, per una volta non un libro Bompiani, ma l'edizione Utet, dalla copertina riquadrata in due toni di grigio, di Delitto e castigo.
“Ah!” — sento esclamare all'improvviso. — “Beato chi ha qualcosa da leggere!”. Saranno state le sette e mezza, le otto, Bompiani era entrato col suo passo insieme marziale e gentile, un impeccabile completo di tweed, al braccio un sottile ombrello, scarpe inglesi da pioggia, sorridente e roseo, pronto, pareva, a uscire a passeggio. Gli mostro la copertina del mio libro e il sorriso svanisce, come capitava spesso della sua allegria, che era in sé malinconica. Scuote la testa: “Che grande passione, la lettura. E come tutte le passioni, lei ancora non può saperlo, è destinata a diventare infelice”. Non capisco, lo guardo stupita. Infelice? Per un editore? Ma che cosa sta dicendo? “Una poltrona accanto a una finestra, la pioggia fuori, un buon libro. Non esiste altro al mondo, non c'è altro”. Lo interrompo: “Sono d'accordo!”, e gli indico la poltrona gemella alla mia. “C'è silenzio. Chi le impedisce di leggere anche lei?”. Scuote la testa: “Leggere in questo modo non mi è più possibile. Preferisco camminare”. Si interrompe, guarda fuori dei vetri. “Pensi, non amavo altro che la lettura, e adesso la vita mi ha tolto questo modo di leggere. Non mi capisce, vero?”. Non lo capisco, lo guardo sorpresa. Negli occhi di Bompiani balena di nuovo l'ironia: “Ma certo, adesso non mi crede. Però ripensi a quanto ora le dico quando avrà quarant'anni e su queste sue letture appassionate avrà impostato, com'è probabile, la vita. Si accorgerà che tutto quanto ha fatto l'ha portata solo a non potere più fare quanto ora sta facendo. Leggerà per lavoro, leggerà per scrivere, le sarà necessario, dovrà assolutamente farlo. Ma la lettura non è quella che si fa a quei fini, o per un qualsiasi fine. La lettura è una grande passione, disinteressata, gratuita. Vedrà che non riuscirà più a permettersela”.
Valentino Bompiani aveva ragione. Spesso, ora che neanch'io riesco più a leggere con il disinteresse e la fuga che fa la lettura vera, occupandomi di libri per mestiere, mi viene in mente lo sguardo azzurro, impavido e triste, con cui mi ha poi subito salutato Valentino Bompiani in quella luce mattutina, per uscire, sotto la pioggia, a passeggio sul mare.