Giudici, ci vuole più coraggio
Articolo disponibile in PDF
Sylvia Plath, una grande poetessa, si suicidò dopo essersi assicurata che la baby-sitter venisse all’ora giusta. Sibilla Aleramo era una scrittrice di talento, ma per coltivarlo fu costretta ad abbandonare suo figlio, come ha raccontato meno di un secolo fa - ma sembra un millennio – in Una donna. Marina Cvetaeva vide morire la figlia, poco più tardi, in un asilo della Russia bolscevica. Quando ci si chiede perché mai nella storia del pensiero non esistano filosofi donna, né esistano musicisti donna, o perché quelle poche scrittrici, poetesse o pittrici degne di nota abbiano regolarmente dietro di sé turbe o rinunce sessuali e familiari, la risposta è una sola: perché per le donne partorire e allevare i figli è sempre stato incompatibile con ogni altra realizzazione creativa. È una verità spesso mascherata dall’ipocrisia generale, a volte anche femminista, e comunque dal convincimento radicato nella cultura catto-maschilista che in fondo l’unica vera realizzazione per la donna sia fare figli.
È stato il postfemminismo anglosassone a insistere ultimamente, invece, sulla necessità di rivedere il rapporto tra maternità e realizzazione femminile. Mentre la parità intellettuale, sociale e politica della donna è ormai parzialmente attuata, ancorché temuta, e mentre i maschi si organizzano - loro, adesso - in movimenti di autocoscienza come il Men’s Movement, due libri appena usciti, l’inglese Madonna and child di Melissa Benn e l’americano When mothers work di Joan K. Peters, si pongono in termini concreti il problema di una nuova politica della maternità: come ottenere dalle istituzioni una nuova “ecologia morale in grado di ridistribuire abilità, tempo, denaro e amore fra i sessi” risolvendo la competizione e quelli che Melissa Benn chiama “i puzzle dell’ambizione”; come portare la società a riconoscere che alla “maternità sacrificale”, di cui parla Joan Peters, si è sostituita di fatto una maternità manageriale, intenta a funzioni organizzative di grande impegno e complessità; come affrontare in termini realistici la resistenza sociale e psicologica al “fathering”, quella cioè che impedisce ai maschi, ed è un dato di fatto, di cooperare davvero alla pari nell’accudimento dei figli; cosa indispensabile se si vogliono proporre ai padri permessi o congedi o anche opportunità di lavoro part-time.
Magari fossimo così sinceri e realistici anche in Italia. Proprio in questi giorni una sentenza, definita storica, della Corte Costituzionale ha riaperto la questione del rapporto tra maternità e creatività femminile, sollevando scalpore e grandi entusiasmi: in parte a ragione, e anche, va detto, perché ratifica una legge (379/90) inclusa nell’ambito delle normative sulla famiglia avanzate da un pool di donne politiche dell’attuale maggioranza; ossia apparentemente contempera le esigenze di una cultura progressista con quelle della tradizione cattolica.
La sentenza afferma che la donna professionista ha il diritto di ricevere il corrispettivo dell’indennità di maternità senza essere tenuta obbligatoriamente ad astenersi dall'attività lavorativa. Questo diritto - indubbiamente importante nel lungo e difficile cammino dell’emancipazione femminile - è riconosciuto dai giudici della Corte Costituzionale in virtù del “diverso sistema di autogestione dell’attività” da parte delle madri cosiddette in carriera: si ritiene cioè che queste madri abbiano la facoltà di “scegliere liberamente modalità di lavoro tali da conciliare le esigenze professionali con il prevalente interesse del figlio"
Quanto alle lavoratrici subordinate, restano tenute all'astensione obbligatoria dal lavoro nei due mesi precedenti e nei tre successivi al parto; obbligo sancito da una precedente legge indubbiamente benemerita rispetto a lontane epoche buie di prevaricazione e sfruttamento del lavoro manuale femminile, ma certo oggi lontana dalle prospettive indicate nei due libri anglosassoni. Le lavoratrici subordinate si trovano - dice la sentenza - “sotto la pressione (con effetti anche psicologici) di direttive, di programmi, di orari, di attività obbligatorie e fisse". Dunque L'operaia, la commessa, la segretaria, l’impiegata statale, l'insegnante, vengono riconosciute lavoratrici di serie B, “eterodirette", come nel Mondo nuovo di Aldous Huxley, considerate meno capaci delle professioniste di organizzare la propria vita all’esterno del lavoro.
A parte la formulazione della sentenza della Corte Costituzionale - che sembra indicare come principale oggetto di tutela non la donna in se nelle sue aspirazioni, inclusa la maternità, ma la procreazione - è lecito qualche dubbio. Le donne in carriera sono in genere quelle più oberate da un lavoro dove è più forte la competitività. Non si tratta di mettere su un’industria di marmellate in campagna, come Diane Keaton in Baby boom, il film che ha anticipato questi temi in America dieci anni fa. Si tratta di mantenere affidabilità e capacità d’intervento reale e continuo, non part-time, non derogabile in funzione delle esigenze di un figlio.
L'UTOPIA ASSISTENZIALE DEGLI ASILI
È più che giusto, quindi, permettere alle professioniste di essere competitive, ma diciamo le cose come stanno: la differenza che i giudici individuano tra queste madri con partita Iva e le altre non è nella disponibilità; è piuttosto nel censo. In Italia ancora più che in Inghilterra o negli Stati Uniti il lavoro, che sia professionale o subordinato, intellettuale o manuale, rimane, è un fatto reale, in contraddizione enorme con la vita materna. Anche il ministro Livia Turco ha riconosciuto che quello delle madri-lavoratrici nel nostro Paese «è un problema non risolto, troppo complesso».
Le donne italiane resistono tra Scilla e Cariddi: da un lato subiscono, nelle faccende di bambini, l’atavica obnubilazione dei maschi, l’impreparazione a condividere le responsabilità, la loro incapacità ad alzarsi la notte a cambiare i pannolini e dare la pappa; d'altro lato, scontano il fallimento dell’utopia assistenziale degli asili, multicolori e scintillanti lazzaretti dove i bambini non fanno che prendere febbri e malattie varie, imponendo alle madri un grande surplus d’insonnia e d'ansia.
Al di là dell’ipocrisia vigente, il vero soccorso di una madre al lavoro - non necessariamente “in carriera” - è la disponibilità di un nonno, o di denaro sufficiente per pagarsi una babysitter. E forse è proprio quest’ultimo diritto che la legge italiana, con questo primo passo, si avvia a riconoscere: se così fosse, sarebbe magnifico. Ma in assenza di questo diritto, la sentenza della Consulta, per quanto progressiva debba considerarsi, discrimina le donne per censo - questo è in definitiva il succo della definizione di professionista - e le incoraggia alla forma di dipendenza più antitetica al processo di emancipazione di qualunque individuo: quella dai propri genitori.