Quirinale: qui il re si fa a pezzi
Tra mitologia e archeologia, il colle che prende il nome da Romolo-Quirino ucciso e smembrato dai senatori è il luogo del potere personale monarchico soppresso e ridistribuito nell’assemblea politica
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Il Quirinale è al centro dell’attenzione di tutti in questi giorni. Ma non tutti sanno che prima di essere abitato dai papi e dai re d’Italia, e infine dai presidenti della repubblica, quel colle era un luogo di auspicio e sacrificio, dove il potere veniva ritualmente smembrato e redistribuito.
Secondo Varrone il Quirinale era chiamato così perché ospitava il tempio di Quirino, sotto il cui nome, racconta Dionigi di Alicarnasso, veniva venerato con sacrifici annuali Romolo, “che aveva superato la natura umana” ed era diventato un dio. Il patrizio Giulio Proculo, suo vecchio amico, lo aveva incontrato su quel colle dopo che era stato ucciso e fatto a pezzi dai senatori, raccontano Cicerone e Plutarco. Mentre saliva in cielo, ricoperto di armi scintillanti, gli aveva rivelato la sua natura divina e ordinato di costruire lì il suo tempio.
Ovviamente il dio Quirino esisteva già prima di Romolo: era il dio delle curie, l’insieme degli abitanti dei sette colli originari, una federazione di rioni libera e priva di re che prima della fondazione di Romolo si chiamava Septimontium.
Quirino proteggeva i Quiriti, gli abitanti pacifici còlti nell’atto di riunirsi nell’assemblea popolare, il comitium: specificamente i cittadini e non i guerrieri. Il dio del Quirinale aveva qualcosa di Giano, il dio primordiale del Gianicolo. Ma era, nella definizione di Andrea Carandini, “un Giano tribale aggiornato in senso curiale-quiritario”, era “il dio della collettività”. Era anche un dio della guerra, ma in un senso speciale: non il signore della guerra in atto, come Marte, ma di quella terminata, come indica la cadenza invernale della sua festa, i Quirinalia, poiché la guerra seguiva il ciclo della natura e onorare un dio armato nella stagione più breve dell’anno voleva dire onorare la fine della guerra.
“Te o padre Quirino venero e Hora di Quirino“ recitava un’antica preghiera tramandata da Ennio, che implorava il dio della guerra di fare la pace. “Santo Quirino” lo chiamava, invocandolo, Marziale. Le sembianze della sua statua, venerata nel sacellum del Quirinale, sono riprodotte in una moneta romana del 56 a.C., un denario di Caio Memmio: il dio cinto di fronde ha i capelli fluenti sul collo, una lunga barba e grandi occhi sgranati
Con la creazione del culto di Quirino si compì sul Collis Quirinalis il mistero di fondazione della teologia politica romana. Racconta Plinio nella Storia naturale che il suo tempio, votato e consacrato alla fine del IV a.C., ai tempi della seconda guerra sannitica, da Lucio Papinio Cursore padre e figlio, era ombreggiato da un bosco sacro, un lucus, in cui crescevano due mirti sacri, uno chiamato patrizio, l’altro plebeo, che verdeggiavano a turno, a seconda che l’autorità del senato crescesse oppure si affievolisse e “la sua grandezza decadesse in senilità marcescente”.
Racconta Livio che il senato di Roma talvolta si riuniva proprio lì. C’era un rapporto speciale di Quirino e del Quirinale con l’assemblea dei senatori che avevano smembrato il primo re di Roma per evitare che accentrasse su di sé il potere. “L’uccisione di Romolo è la premessa perché gli aristocratici sopportino la monarchia”, hanno scritto gli storici.
Quello che ancora oggi chiamiamo “il colle più alto” in realtà non lo è né lo è mai stato: lo hanno confermato le indagini geologiche e le prospezioni al georadar durante la recente campagna di ricerca di Andrea Carandini. Ma aveva nell’antico Septimontium un’indiscussa eminenza simbolica che avrebbe conservato per tutta la storia della città. Che un fulmine colpisse il tempio di Quirino, come riferito da Livio, era il più funesto dei presagi. Narra Cassio Dione che durante la guerra civile romana, nel 49 a.C., mentre lupi e gufi vagavano funesti per la città, un incendio lo incenerì. Fu allora che Cesare, durante la sua ricostruzione, sembrò trasfondersi nella figura bifronte, sacrificale e divina, che vi si venerava: prima in Romolo e poi in Quirino.
Sul Quirinale c’era la casa di Tito Pomponio Attico, l’amico e sponsor di Cicerone, che veniva chiamata la “Tanfiliana” e gli era stata lasciata in eredità da uno zio, più raffinata che lussuosa, come racconta Cornelio Nepote, e con un meraviglioso parco. Nella primavera del 45 Cicerone scrisse ad Attico tre lettere in cui commentava in modo apparentemente sibillino, in realtà crudo e sprezzante, la piega che stava prendendo l’autocelebrazione di Cesare. La sua statua quell’anno, dopo la vittoria di Munda, era stata dedicata nel tempio di Quirino, mentre una serie di cerimonie lo accostano ritualmente a Romolo in quanto rifondatore della città. Cicerone scriveva di augurare a Cesare l’influsso di Quirino, ossia di fare la fine di Romolo, piuttosto che quello della dea Salute, cui era dedicato il tempio contiguo. Un auspicio che prenderanno quasi alla lettera i congiurati alle idi di marzo dell’anno dopo, creando involontariamente il presupposto della monarchia di Augusto.
Cos’è allora Quirino, cos’è il Quirinale? Quirino è Romolo ucciso, è il potere personale monarchico soppresso, smembrato e redistribuito nell’assemblea politica. Sul Quirinale il corpo del re morto si trasforma e moltiplica nella collettività e solo così può essere venerato. Solo un re in effigie può regnare, un re disinnescato e sublimato. Quirino è, in seguito, l’ombra di Cesare ucciso. Solo una volta sacrificato il dittatore può trasformarsi in dio della guerra terminata e proteggere la città-stato, poi l’impero, dal suo sacello. Ogni sovrano che successivamente presidierà quel “colle più alto”, quel culmine sacrale della Roma caput mundi, esposto ai presagi degli uccelli e alle folgori di Giove, sarà a sua volta l’ombra di un re che solo se ucciso può rendere la sua monarchia accettabile.
Nel sottosuolo dei giardini del Quirinale si trovano ancora le fondamenta del tempio colossale, largo quanto il Foro di Cesare. Sul rilievo del frontone Romolo e Remo, inabissati sotto il Giardino all’Inglese o altrove nell’ex-lucus ora presidiato dai corazzieri, siedono a ricevere gli auspici ex avibus, e gli uccelli danno i loro segni, fortunati per l’uno, sfortunati per l’altro. Mentre le votazioni per il presidente della repubblica si preparano, i due gemelli allevati dalla lupa continuano a presiedere, nello spazio più oscuro del colle sacro, agli augùri e ai malauguri, ai voti e agli auspici del comitium che esprime ancora oggi il suo più simbolico rappresentante politico nel simulacro sacrificale di un non-re.