Si sgusciavano telline
Flaiano aveva finanziato un pescatore sardo, Ignazio mastino, che gli arrostiva il pesce in una baracca sulla spiaggia.
Articolo disponibile in PDF
Erano altri tempi, tempi di festa. L’Italia era una portaerei che dall’Europa continentale si slanciava in obliquo verso il Nord Africa dividendo di netto l’Ovest dall’Est, il Mediterraneo ‘atlantico’ da quello orientale su cui incombevano dall’alto i paesi d’oltre cortina. All’equipaggio della portaerei, composito, un po’ sgangherato ma simpatico, arrivavano derrate letteralmente da destra e da manca: dollari di qua, rubli di là. Anche di quella prodigalità, utilizzata e incrementata con fantasia nella ricostruzione, si nutriva una nuova festa mobile di scrittori, artisti, cineasti, giornalisti, in un clima di libertà o di licenza simile a quella dei figli di genitori divorziati in concorrenza.
Un passaparola sconfinato faceva affluire i trend setter d’oltreoceano sulle spiagge del paese di frontiera in cui la guerra fredda riscaldava e rendeva dolce la vita. Nella Dolce Vita romana ingenue avanguardie di americani libertari e raffinati pionieri del radical chic si univano ai vecchi aristocratici e ai nuovi rivoluzionari nelle mansarde di Trastevere o nei palazzi di un centro storico da poco recuperato alla movida, dopo il predominio dei quartieri alti del nord della capitale ripopolati nel Ventennio. Vivevano la bohème anche le spie, mimetizzate dai jeans e dalle barbe, mescolate a un viavai di avventurieri e di playboy. I figli della borghesia arricchita dal fascismo familiarizzavano coi rampolli ribelli dei miliardari californiani tra chitarre e bandiere cubane, sandali indiani e Intillimani. Si vestiva alla cinese, le ereditiere erano travestite da guardie rosse, si mangiavano spaghetti in salsa cilena, si passavano in piazza le notti di primavera.
E d’estate ci si spostava al mare. Vicino a Roma c’era la pineta di Fregene, ex compound riservato ai gerarchi fascisti, accanto alla bonifica mussoliniana di Maccarese lussureggiante dei frutti del lavoro contadino e al castello di Torre in Pietra traboccante di yogurt e di valori liberali. La pineta costeggiava una lunga spiaggia delimitata a sud dal nuovo aeroporto di Fiumicino e a nord dalla foce del piccolo fiume Arrone.
La foce era un luogo incantato, consacrato da Fellini, che lì aveva girato la scena finale della Dolce Vita, ma che gli scrittori avevano scoperto ancora prima: Moravia, ma soprattutto Flaiano, che aveva finanziato un pescatore sardo, Ignazio Mastino, da cui si faceva arrostire il pesce in una baracca di legno piantata sulla spiaggia, accanto alle altre baracche dove vivevano e tenevano le barche altri meno intraprendenti pescatori. Più tardi quelle capanne si sarebbero trasformate in templi di raffinato pauperismo, teatri di amori di attori di grido, approdi di artisti e intellettuali cosmopoliti. Lo avrebbero chiamato il Villaggio dei Pescatori o tout court il Villaggio, echeggiando il Village per eccellenza, quello di New York.
Erano tempi di festa. Anche le tortuose vie della pineta, che si insinuavano tormentate dalle radici dei pini nell’eclettico campionario di ville e villini Novecento, vedevano il trionfo della cultura e soprattutto di quella sua componente avventurosa, politica e dinamica che era allora il giornalismo. Moda e movida a parte, per i giornalisti Fregene era strategica per la vicinanza non solo con Roma ma con Fiumicino. Gli inviati speciali, nei villini in affitto, tenevano sempre una valigia fatta: fosse la crisi di Cuba o la primavera di Praga, la telefonata del giornale li trovava rilassati e pronti a salire sugli aerei allora profumati di colonia. I giornalisti della Rai a Fregene tempravano le loro abbronzature e facevano su e giù per l’Aurelia con la sede di via Teulada in Prati.
Tra un viaggio e l’altro e tra una diretta e l’altra, come quella per l’allunaggio dell’Apollo 11, si facevano tornei di ping pong e di scacchi, ed erano i momenti in cui la tribù dei giornalisti in carriera annidata tra i pini e quella degli artisti antiborghesi del Villaggio si ibridavano in un’atmosfera un po’ da campus un po’ da dacia russa. Chi non gareggiava discuteva e le polemiche, di letteratura o di politica, appassionavano noi bambini, incaricati di non far mancare mai i bruscolini e il whisky.
Gli scrittori erano tanti. Si farebbe prima a dire chi non c’era. Natalia Ginzburg aveva battute feroci e irresistibili. Goffredo Parise, insieme a Giosetta Fioroni, era sempre elegante. Cesare Garboli vantava un magistero scacchistico che veniva puntualmente, anche se forse casualmente, battuto dai ragazzini. Ciascun clan di giornalisti e scrittori residenti — Gianfranco Piazzesi, Enzo Forcella, Fabiano Fabiani, Andrea Barbato, Gianni Farneti, Furio Colombo, Enzo Siciliano, Francesca Sanvitale e molti altri — cooptava i suoi ospiti, italiani e stranieri. Da Gore Vidal a Gianni Agnelli, da Gabo Marquez a Pier Paolo Pasolini, c’era un ingorgo di intellettuali e potenti che andava e veniva da Roma nel traffico insieme ai fagottari e ai paparazzi, alle soubrettes e alle scolaresche delle colonie. Lo stesso andirivieni si registrava, discreto, nel Villaggio. Nelle case di Moravia e Volonté, Pontecorvo e Rosi, Franco Solinas e Lina Wertmüller si incontravano Renato Salvatori e Annie Girardot, Marcello Mastroianni e Catherine Deneuve, Florinda Bolkan e Mimsy Farmer, Joseph Losey e Andrej Tarkovskij, insieme a politici e sindacalisti, nobildonne, hippy di buona famiglia accampati col sacco a pelo nei giardini.
Sui due regni, quello dei villini e quello del Villaggio, regnava sovrano magnanimo e folle il malinconico Fellini, con la tribù di gatti nutrita da Giulietta Masina, le serate letterarie e spiritiste, gli arrivi all’alba in vestaglia di seta all’apertura del Bar delle Sirene. Con gli altri avventori in cerca di giornali freschi sotto i pini stillanti vigeva il patto del silenzio: nessuno parlasse prima del secondo caffè.
Si ritrovavano più o meno tutti ogni sera da Mastino. La capanna finanziata da Flaiano era diventata più grande ma la tettoia sul mare era sempre di canne e i tavoli sempre di legno frugale, eroso e sbiancato dalla salsedine. Il vecchio Mastino era aiutato dai figli, Alberto, Peppone, Maurizio, Lillo. Si sgusciavano telline, si svisceravano filosofie, si smascheravano strategie, si demolivano ideologie. Poi si tornava in bicicletta nelle dacie per andare a letto presto con un buon libro e la sveglia alle sette per uscire col mare piatto in pattino.