Ermes nostro che sei nel web
Signore della comunicazione istantanea, è il vero dio dell’epoca in cui possiamo interagire con tutto il mondo senza muoverci da casa
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L’uomo in piedi, immobile contro la vetrata di un aeroporto, lo smartphone in mano, concentrato sui tasti, porta come Atlante sul collo inclinato il peso del globo del mondo: il world wide web. E’ l’eroe del nostro tempo, la sua icona, il monumento al suo milite ignoto. E’ lì, sull’interfaccia, alla frontiera, per accogliere o respingere, nel nome del logo del globo, centinaia di ospiti o invasori, l’esercito di messaggi che a ondate perforano il cyberspazio, anneriscono il display, tramiti di comunicazioni utili o inutili (ma è sempre più incerto il giudizio da emettere), termiti che divorano le opere e i giorni degli uomini.
Almeno tre ore della sua giornata, in ogni parte del mondo, sono dedicate ad arginare le mail. Nei momenti di pausa, l’uomo non si guarda più intorno: china la testa e liquida la spam, divide i messaggi meno urgenti dagli urgenti. Gli dà conforto temporaneo, un senso di controllo, metterli in attesa nella casella ‘da evadere’. Ma sa che, per evaderli, altre ore saranno sottratte alla sua vita. Se la sera, vinto dalla stanchezza, non arriva a farlo, si sente in colpa e cade nel sonno come un bambino che non abbia pregato l’angelo custode.
L’angelo, il messaggero alato, colui che mette in comunicazione il mondo, o i mondi. La vita di questo eroe di frontiera, di questo acrìta, è in realtà una continua preghiera a quell’angelo, che nella sua versione precristiana fu cantato da Omero e da Rilke: un incessante sacrificio a Ermes, il signore della comunicazione istantanea, il dio che ha le ali sull’elmo e nei sandali, l’interprete (da lui la parola ‘ermeneutica’), il mediatore d’affari, il protettore del commercio ma anche il patrono dei ladri. Ermes è senza dubbio il dio della Rete.
Altre icone, altri monumenti virtuali di arte locativa affollano il paesaggio del mondo lungo la griglia del Gsm. Lo studente alla vigilia dell’esame con accanto la pila di libri da ripassare, che aggiorna invece il suo status su FaceBook. La ragazza errante per l’Asia, che tiene sempre aperta la finestra di Skype. L’immagine postata prima che guardata. Il pensiero twittato prima che pensato. La vita caricata su YouTube prima che vissuta. Siamo sempre connessi ma non comunichiamo a noi stessi un’informazione cruciale — la condizione umana, la fuga del tempo — di cui dovremmo ma quasi mai riusciamo a tenere conto, intenti a condividerne infinite altre, urgenti, meno urgenti, non urgenti.
Sappiamo bene che gli antichi dèi non sono scomparsi. Come avrebbero potuto? Sono stati cacciati, rimossi. E, ha detto Freud, il rimosso torna sempre. Si sono nascosti nel profondo per riemergere, ha spiegato Jung, come sintomi della psiche, individuale o collettiva. Il sintomo è sacro, ha ribadito Hillman, e la psicologia è il luogo dove incontriamo gli dèi: non nei musei, ma nel rimosso che genera le nostre malattie collettive.
La nostra psiche collettiva soffre di un’intossicazione ermetica. Di un eccesso di Ermes. Si può eccedere nell’immolarsi a un dio? esiste un integralismo anche nel politeismo? uno squilibrio che genera il disturbo? O forse il peccato è un altro tipo di hybris: avere tentato di rubare a Ermes il suo primo appannaggio, la comunicazione istantanea. Ermes traduttore, spia, predatore di mandrie, disonesto mercante, Ermes ladro si vendica sottraendoci l’unico appannaggio che abbiamo: il tempo. O, più ancora, la cognizione di cosa sia il nostro tempo. Ermes dio dei confini, mediatore tra mondi, traghettatore di anime, offusca nella velocità il nostro rapporto con la caducità e con la morte, di cui è custode.
Ermes aveva il dono dell’ubiquità. Poteva essere in un luogo e istantaneamente dopo nell’altro. Anche noi. Una sera decidiamo di fare shopping nei magazzini di Shanghai, un’altra perlustriamo col mouse le brocantes di Provenza. Facciamo affari con Paypal, la nostra spesa vola con i corrieri e le poste. Stiamo onorando troppo Ermes? o gli abbiamo usurpato l’ubiquità, e anche di questo si sta vendicando?
Il mito è un dispositivo omeopatico, contiene in sé anche la cura al male che provoca. Ma può avere un effetto terapeutico, ha mostrato Hillman, solo se riusciamo a pensare miticamente, a realizzare che il nostro malessere personale rientra in un paradigma infinitamente più grande, che a operare in noi è un archetipo mitico.
Come ogni dio, Ermes è l’unico potenziale guaritore dei mali causati dai propri castighi. Come guarire l’intossicazione ermetica, come sanare la grande ferita di tempo aperta dalla tecnologia mediatica, Ermes lo sa. Ma il suo sapere è per eccellenza misterioso: ‘ermetico’. Ermes il mago, col suo cappello a punta, con il suo caduceo, il bastone su cui si accoppiano avvinghiati due serpenti, che ancora oggi campeggia nelle insegne delle farmacie, Ermes Tre Volte Grande, cioè Ermes nella sua qualità bizantina di Trismegisto, è anche il dio dell’alchimia: non solo e non tanto della farmacologia, quanto del principio della trasmutazione. Sa come un male può diventare un bene. Ermes Psicopompo, guida delle anime dal mondo dei vivi a quello dei morti, sa che i due mondi devono restare in connessione e che la morte dev’essere sempre presente perché la vita si possa dire tale. L’assoluzione dallo spazio e dal tempo, l’illusione di onnipotenza che ci danno la comunicazione istantanea, la connessione perpetua e la dislocazione ubiqua escludono dalla vita il senso della morte, il suo silenzio, la sua assenza di legami. Eppure presso gli antichi, quando Ermes arrivava in volo, il convivio si faceva improvvisamente muto. Moriva la conversazione, taceva la chat.
Ermes, il dio della velocità della parola, sapeva fin dall’infanzia che nulla può più della sua lentezza. Appena uscito dal grembo di Maia incontrò l’abitatrice del Tartaro, la tartaruga. Il dio della trasformazione usò il suo guscio come strumento musicale: inventò la lira e fu il primo a cantare le storie degli dei e degli eroi. Ermes, il primo poeta, insegna che l’arte nasce dalla lentezza e che solo la lentezza della tartaruga, che è all’origine dell’arte, può compensare la velocità della connessione — logica, analogica, tanto più digitale. Solo nelle risonanze profonde del suo guscio vibra il vero messaggio.