Angelo Branduardi: 'Sono un trovatore dall’anima mistica'
È il musicista italiano più colto, che da sempre coniuga lo spirito pop con la poesia di tutti i tempi e con la tradizione “colta”, da Bach a Wagner. E adesso l’ultima sfida: un album dedicato a Ildegarda di Bingen.
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“Sono un trovatore e sempre vado per molti paesi e città. Ora che sono arrivato qui, lasciate che prima di partire io canti. Sono le parole di un trovatore tedesco dell’anno mille. Per tutta la vita le ho fatte mie.”
Angelo Branduardi è arrivato qui, alla soglia dei settant’anni, che festeggerà con un grande tour e con la pubblicazione in vinile di una trilogia di album: “Futuro antico”, “L’infinitamente piccolo” e l’appena uscito “Il cammino dell’anima”, una lettura di Ildegarda di Bingen, la grande mistica medievale tedesca, studiosa di scienze naturali e di medicina, di filosofia e di teologia, teurga, drammaturga, scrittrice, pittrice, nonché straordinaria compositrice. Ma per capire il senso di quest’incontro, dobbiamo fare un passo indietro.
D. Branduardi, io la ascolto ininterrottamente dagli anni 70.
R. Poverina.
D. Erano i primi tempi delle radio libere. A un certo punto sento le sue Confessioni di un malandrino e riconosco i versi di un grande poeta russo, Sergej Esenin.
R. E’ stato il mio esordio. Quella canzone l’avevo scritta a diciott’anni. Il testo lo avevo trovato in un libro che mi era molto caro, Il fiore del verso russo, pubblicato negli Oscar Mondadori.
D. Come no, curato da Renato Poggioli. Lo avevo anch’io. Come mai proprio Esenin?
R. Sentivo una grande affinità. L’ultimo poeta contadino: anch’io, anch’io! Un uomo bellissimo: anch’io, anch’io! (Ride.) Mi sono identificato e ho provato a metterlo in musica. Lo so che non si dovrebbe fare, perché la poesia ha già un suo solfeggio. Ma se si carpisce il solfeggio interno e lo si esplicita in quello musicale, allora anche la poesia si rende più comprensibile.
D. In seguito ha continuato a farla spesso, questa cosa che non si dovrebbe fare. Da dove nasce la sua grande e, mi permetta, selettiva e sofisticata passione per la poesia?
R. Da Franco Fortini, mio professore all’Università Statale di Milano, mio maestro, mio grande amico, primo e determinante incontro della mia vita. Erano i tempi in cui aveva pubblicato Foglio di via. Io venivo dal conservatorio e si diceva: “Basta che suoni il violino… e sei deficiente uguale”. Eravamo un piccolo gruppo, ogni pomeriggio andavamo a casa sua. Lì ho incontrato altri poeti, Pasolini ad esempio. E lì ho scoperto la poesia. Dante, anzitutto. Fortini aveva idee estremistiche con cui andavo d’accordo. Per esempio, ci faceva leggere solo il Paradiso: diceva che il resto non serviva.
D. Molti anni dopo lei ha messo in musica il lungo brano del canto X del Paradiso dedicato a san Francesco, con una resa della prosodia delle terzine, della sottigliezza ritmica e anche dei significati che Dante affida alle sue strane rime, assolutamente perfetta. Un capolavoro, come la sua versione del Canto di Bacco di Lorenzo il Magnifico: “Quant’è bella giovinezza che si fugge tuttavia”. C’è una genialità esegetica nella resa musicale di quei versi, della loro malinconia dionisiaca, tutto il vero mood del Rinascimento, un’età di vecchiezza, di riflessione. Ma penso soprattutto all’album che ha interamente dedicato alle poesie di William Butler Yeats, il grande poeta irlandese.
R. Un grande fiasco.
D. Commercialmente forse. Ma per alcuni di noi è stato una suprema rivelazione.
R. Lo so, nel tempo è diventato uno degli album di culto della mia discografia. Quando uscì però la casa discografica voleva buttarmi “sul mercato sottostante”, come diceva Jannacci. (Ride.) Non è stato un momento facile. Ci avevamo lavorato come matti. Anche per via del controllo giornaliero, pezzo per pezzo, del figlio Michael, senatore della Repubblica d’Irlanda e perfetto conoscitore dell’italiano. Ha negato non so quante volte il permesso di mettere in musica le poesie del padre. Addirittura Van Morrison, che è un grandissimo artista, aveva pronto un disco intero su Yeats e il figlio gli ha detto che non era la musica adatta. Quindi è un onore per me averlo potuto musicare. Però poi, dopo tutta quella fatica… Vabbè.
D. I posteri, Branduardi, ci sono i posteri. E comunque lei, con questa sua tecnica della citazione, ha composto anche canzoni di grandissima popolarità. Per esempio il canto pasquale ebraico Chad Gadya, che ne La fiera dell'Est ha consegnato all’ascolto collettivo con piccole modifiche testuali e con un trattamento musicale che mi è sempre sembrato raffinatissimo perché mescola la tradizione medievale occidentale con…
R. … con la melodia a intervallo unico, cioè con una delle cose più primitive della musica.
D. E con quei violini compatti che ricordano un po' il mondo orientale, il mondo arabo.
R. Voglio dirle una cosa sulla Fiera dell’Est: che mi consegna un poco all’immortalità perché mi sono accorto che tutti i bambini la cantano. Ora nessun bambino delle elementari sa chi è Branduardi, ma chi è “il topolino” sì. Questo significa che la canzone non mi appartiene più. E’ diventata patrimonio popolare. In questo senso io sono felicissimo, perché è un pezzo di immortalità. Questo sì che resisterà alla mia dipartita.
D. Ho sempre pensato che il suo lavoro fosse, mi perdoni l’aggettivo, bizantino. Non si offenda, per me, contrariamente all'uso comune, questa è la massima delle lodi. L'ho sempre vista come un esponente della civiltà della citazione, dove si considera che tutto sia stato già detto, che tutto sia stato già scritto e che quindi si debba se mai riscrivere, ridire, citare, commentare, glossare, aggiungere, riformulare, ma sempre basandosi sulla conoscenza del già compiuto, del già creato, in altre parole del passato. Branduardi, dove ha attinto la sua pervasiva conoscenza del passato? oltre che dall’insegnamento di Fortini? Penso alle tradizioni poetiche, ma anche al folklore popolare, alle fiabe della tradizione celtica o alle tradizioni mitologiche, greche e non, e ai loro esiti ottocenteschi.
R. Per quanto riguarda le fiabe, il pozzo delle storie è principalmente un libro: la Barzaz Breiz, gigantesca antologia di poesie e ballate celtiche raccolte da un visconte francese di età romantica, o preromantica, Theodore Hersart de la Villemarqué. Da lì viene, per esempio, la canzone che ho intitolato La serie dei numeri. Poi ci sono altre tradizioni favolistiche orientali: per esempio Il dono del cervo è una storia giapponese. E poi ci sono versi di poeti più o meno mimetizzati: per esempio, quelli di Nazim Hikmet, il grande poeta turco. Altri testi vengono semplicemente dalla fantasia, specie da quella di mia moglie, Luisa Zappa.
D. Una fantasia che però riutilizza frammenti, schegge, atmosfere simboliche dei giacimenti tradizionali che ha menzionato.
R. Sì e infatti, vede, più che un bizantino io mi sento un trovatore occidentale, come dicevo prima: l’“invenzione” sta nel “trovare”, nel rinvenire. E questo vale anche per la musica. Nel medioevo, e anche prima forse, esistevano “celle melodiche” che giravano per l’Europa, e non solo, che si trasmettevano circolarmente tra oriente e occidente e passavano di mano in mano tra i menestrelli erranti. Sono anzitutto quelle che conosco, anche se non sono un filologo, com’è invece un altro mio amico, Alan Stivell. Musica pentatonica, che se fatta in un modo è irlandese, se fatta in un altro è cinese, che utilizza scale identiche dall’uno all’altro capo del mondo. Le stesse che accomunano, ad esempio, anche le musiche andine.
D. Ma in questa trama musicale continua, desunta da vari passati, emergono a volte anche citazioni musicali dalla cosiddetta musica colta. E’ così? se sì, quali sono i suoi autori di riferimento, che cita nelle sue canzoni?
R. E’ così. E cito Haendel, Bach, ma anche Wagner e Mahler, sa? chi direbbe che sono un wagneriano? (Ride.) Eppure lo sono. Nella colonna sonora che ho scritto per il film Momo di Michael Ende — altro grande incontro, altro grande amico — ho costruito una melodia basata sulle musiche di quegli autori.
D. Da un poeta come Esenin, essenzialmente terrestre ancorché visionario, attraverso le tradizioni che abbiamo menzionato e che presuppongono, anche nelle canzoni più apparentemente leggere, una base sacrale, ipnotica, capace di sollevare e coinvolgere, e poi passando attraverso Yeats, e sappiamo bene quanta mistica entri nel suo mondo poetico, e infine con Francesco e Dante, il suo cammino prende una via sempre più mistica e ha, se mi permette, qualcosa di esoterico. Non è già esoterica, in fondo, l'operazione di rendere popolare, cioè di far cantare a tutti, cose che se fossero proposte in maniera paternalistica, troppo sofisticata, come cultura “alta”, sarebbero rifiutate dalla gran parte del pubblico? Trovo che far cantare segretamente a distesa questi pezzi di antichità, questi pezzi di tradizione, sia un’operazione straordinaria e in qualche modo già, diciamo così, iniziatica.
B. Ma lo è. Ho sempre pensato che la musica sia un’iniziazione e una visione e penso che essendo l’arte più astratta (queste sono cose che ho maturato negli ultimi anni, dal disco di san Francesco in poi), sia per forza la più vicina all’assoluto — qualsiasi nome si voglia o possa dargli. Quindi sempre di più il mio cammino si è inerpicato, nel tentativo di vedere al di là del muro. Si è fatto anche un po’ più tormentato. Questo è successo.
D. E, con Ildegarda di Bingen, è arrivato forse al culmine della mistica: alla mistica al cubo, perché si esercita attraverso la musica ma anche attraverso la parola scritta (alla quale Ildegarda riesce ad affidare cose che credo nessuno, nella pur sconfinata letteratura mistica, è riuscito con tanta astrazione e nello stesso tempo con tanta evidenza a rivelare) e in terzo luogo nella dimensione visiva. Le visioni di Ildegarda sono affidate, nei suoi manoscritti, a un’arte visionaria della miniatura, che qualcuno ha paragonato, a torto o a ragione, al Libro Rosso di Jung. Si tratta comunque, in entrambi i casi, di una operazione di disvelamento di ciò che non può essere espresso, dell'inesprimibile per eccellenza. Come è riuscito, con Ildegarda, a compiere ancora una volta l’operazione di adattamento al presente, di consegna all'ascolto popolare? soprattutto, a dare forma e espressione attuale al mistero divino, o psichico, che Ildegarda affida a composizioni molto più lontane dalla nostra sensibilità di questo album che invece si ascolta, oggi, benissimo?
R. Devo essere sincero, fino a non molto tempo fa non conoscevo Ildegarda. Qualcuno me ne parlò e mi disse che faceva della musica straordinaria. Sono rimasto toccato anzitutto dall’idea che nell’anno Mille una donna scrivesse musica: è già una cosa incredibile. E allora ho studiato. Non sono un esperto del suo genio teologico. Lo sono del suo genio musicale perché ho studiato un po’ tutto. E mia moglie mi ha consegnato tutto quello che poteva leggere, traducendo dall’originale.
D. E cosa è successo?
R. Mi sono accorto che parte di queste melodie erano esoteriche, mistiche, e che questo si poteva sottolineare, ma sempre con rispetto, attraverso accorgimenti musicali, ossia con l’impiego della musica verticale, che a quei tempi non c’era, delle sue armonie, progressioni. Che si poteva darne, attraverso l’uso di certi strumenti antichi e certi strumenti invece moderni, una lettura, scusi il brutto termine, divulgativa.
D. Diciamo democratica.
R. Sì. E poi, soprattutto, che si poteva dare a me una felicità immensa. Perché vede, è questo che inseguo. Sarò egoista ma il mio piacere è quasi privo direi di interesse esteriore. Non vorrei usare un’espressione retorica come tormento ed estasi, ma nella composizione musicale si crea una condizione interiore diversa, come dicevo, da quella perseguibile da qualsiasi delle altre arti, ed è questa che io perseguo.
D. Invece Luisa Zappa, sua moglie, che ha tradotto da tutte le lingue, adesso si è misurata con il latino di Ildegarda. Nei testi italiani tradotti e un po' ricreati e adattati per questa sua opera – Il cammino dell’anima è un’opera unica scandita in più canti, come del resto l’insieme di quella di Ildegarda— avete tenuto presente soltanto i versi dei suoi Lieder o siete scivolati in qualche modo all'interno di suggestioni provenienti dalle altre sue opere, come lo Scivias, il Liber vitae meritorum, il Liber divinorum operum?
R. Ci siamo attenuti sempre con rispetto al brano, ma abbiamo scoperto un mondo in cui siamo effettivamente scivolati dentro quasi senza accorgercene. Sì, questa che lei usa è una parola bellissima. Dopo avere fatto arrivare da tutto il mondo tutto quello che esisteva di inciso o registrato, penso di essere scivolato dentro la musica di Ildegarda e di avere, ripeto con estremo rispetto, cercato di costruire una suite che avesse un suo inizio e una sua fine musicale, con un preludio e una coda, come si usava una volta. Ma così facendo sono scivolato nella musica delle sfere. E’ questo che è successo. Sa, quando un musicista comincia a lavorare, soprattutto su questo tipo di cose, la mano va da sola. Non sono più io che suono il violino ma è lui che suona me. Bisogna scoprire quello che c’è già ma che va svelato. Non so se riesco a essere chiaro.
D. Molto chiaro. L’artista lavora per sottrazione.
R. Abbiamo cercato di farlo in certi brani dove meno c’è, più c’è. Ad altri invece abbiamo dato una veste sinfonica perché la chiamavano. Dopo un bel po’ di tempo ho riusato la grande orchestra che dà a questo misticismo, a questo esoterismo come giustamente lei lo chiama, una dimensione ancora più vasta, dai bassi bassi del contrabbasso alla settima posizione del violino.
D. Che è poi quello che Ildegarda stessa scrive nella sua lettera all’arcivescovo di Magonza, in risposta all’interdetto di eseguire musica nel suo monastero. Parla del suono più basso come controllo del corpo e del suono più alto come tensione dello spirito. Ha presente? Cita il salmo: “Proclamare il Signore sul liuto e suonare per lui sulla cetra a dieci corde”, e dice proprio così: “Egli desidera riferire il liuto, che suona più basso, al controllo del corpo; la cetra, che suona più alto, all’intenzione dello spirito; le dieci corde, al compimento della Legge”. Ildegarda ha una teoria della musica come sinfonia delle rivelazioni celesti, come entità che tiene tutto insieme.
R. Spiega che l'anima dell'uomo è symphonialis, “sinfonica”. Parla dell'anima come sinfonia.
D. Ildegarda era un saggio, un sapiente. Era anche molto più colta di quanto lei volesse ammettere. Era un filosofo, era un medico, cosa che ogni alchimista non poteva non essere, era, oltreché una musicista, sicuramente anche un’astronoma. Queste diverse conoscenze che ora ci appaiono forse disparate facevano parte, allora, del canone della sapienza. Che però, se posseduta da una donna, andava nascosta perché …
B. … Perché sarebbe stata considerata una strega. Non sono un esperto, ma due o trecento anni dopo tutte queste sue attività le sarebbero valse il rogo.
R. Già allora, in realtà, non fosse stata così politicamente attenta. Un'ultima domanda. Ildegarda ci piace tanto anche perché soffre moltissimo. Tutta la sua attività artistica e creativa è — lo dice lei stessa — reazione a ciò che definisce “momento rovinoso del suo cuore”. Lei, Branduardi, ha parlato di felicità creativa. In che modo è connessa con questo momento rovinoso del cuore?
B. Anche in questo senso quella di Ildegarda è una voce moderna, quasi una voce romantica. Nella musica c’è un immenso travaglio. Almeno questo capita a me. Io scrivo perché per me è terapeutico. Poi capita che lo sia anche per altri. Mi faccia esagerare: scrivere musica è una particolare forma depressiva che si esalta e viene curata dall’opera. E la felicità dopo è grande.