Non chiamatemi bizantino. Sono un russo moderno
«Ma dalla fine della civiltà si possono capire le ragioni che hanno portato alla dissoluzione dell'impero sovietico». Parola dell'ambasciatore in Italia
Articolo disponibile in PDF
Ha 41 anni e dal dicembre 1997 risiede nel nostro Paese con il ruolo di ambasciatore della Federazione Russa in Italia. Ma Nikolay Spasskiy, una laurea in scienze politiche e un dottorato di ricerca in scienze storiche, non è solo un diplomatico. Dal 1999, infatti, alla carriera diplomatica ha affiancato quella di scrittore, pubblicando prima una raccolta di racconti, saggi e testi teatrali, La fine del mondo e altri racconti, e successivamente Il Complotto, un romanzo di fantapolitica. Il suo terzo libro, Il Bizantino, è uscito da qualche giorno ed è dedicato alla lezione storica di Bisanzio alla luce della politica attuale.
Ambasciatore Spasskiy, nel racconto dell'attacco islamico del 1453 a Costantinopoli, con cui comincia Il Bizantino, c'è un'allusione simbolica all'attacco alle Torri Gemelle?
«Il mio è un romanzo concepito fin dall’inizio come storico, ambientato nel '400, secolo che mi interessa particolarmente. Ho finito di scriverlo prima dell'11 settembre e dopo non ho cambiato neanche una parola. Ma lei ha ragione. Non posso negare che ho lavorato a quest’opera pensando alle sorti del nostro mondo e al destino del mio Paese. In questo senso si, può leggersi nel mio libro la preoccupazione per il drammatico accentuarsi di quello che Huntington ha chiamato "scontro di civiltà", c che peraltro risale già ai tempi di Tucidide».
Qual è l'oggetto centrale del suo romanzo?
«La fine di Bisanzio, intesa non come Stato ma come mondo, come civiltà, con le conseguenze profondissime che ebbe per l’ulteriore sviluppo dell’Europa occidentale e del mio Paese. Perché per la Russia Bisanzio è sempre stata ed è rimasta finora il punto di riferimento essenziale. Abbiamo passato il periodo della giovinezza del nostro Stato sotto la fortissima influenza culturale e spirituale bizantina».
Qual è la vicenda che narra?
«Il matrimonio tra il gran principe di Mosca Ivan III e la principessa Zoe Paleologina. Una vicenda vera che ha suscitato interesse negli storici russi e anche in quelli italiani, ma che ha ancora dei lati oscuri. Nel ricostruirla, in una cornice rigorosamente storica, ho usato il congiuntivo della fantasia».
Fino a che punto in questa vicenda affiorano le radici della politica del suo Paese, la Russia?
«La Russia di oggi è un Paese moderno, dinamico, inserito fino in fondo nella realtà del XXI secolo. Ma conta più di mille anni di storia. Attraverso i secoli Bisanzio ha rappresentato per la Russia un enorme filone spirituale, culturale, ideologico, politico anche se, col passare del tempo, decrescente. Perciò non è strano che, studiando la crisi e la caduta dell'impero bizantino, un russo cerchi di capire meglio le radici della crisi di quello zarista, che ha portato sia alla Rivoluzione bolscevica, sia alla dissoluzione dell’Urss».
Si sente forse un po' bizantino?
«No. Sono un russo e spero di essere moderno a sufficienza nei miei pensieri e atteggiamenti. Ma al tempo stesso Bisanzio per me non è una parola qualunque. Oltre al naturale interesse storico per un mondo remoto che ha tuttavia influenzato in modo inimmaginabile la nostra vita, esiste un certo senso di appartenenza. Bisanzio ha avuto un rapporto quasi materno con la Russia e quindi il mio atteggiamento verso la bizantinità è personale ed emozionato».
Non è analogo a quello bizantino anche il vostro ruolo storico di baluardo alla pressione dell'Asia?
«Baluardo? In senso stretto una volta sola, nel XIII secolo, contro i tartari, e abbiamo pagato un prezzo altissimo. Successivamente il nostro ruolo è stato più di Melting Pot ma rispettando sempre di più le caratteristiche culturali, religiose e nazionali dei diversi popoli. Anche Bisanzio ebbe questo ruolo e cadde proprio quando cessò di mantenerlo».
Il suo romanzo è ambientato nella cerchia degli umanisti bizantini o filobizantini che diedero vita al Rinascimento, e fra questi spicca Bessarione.
«Una figura che personalmente non mi ispira simpatia, anche se ne riconosco l’importanza. Nel rappresentare lui e il suo ambiente ho avuto il sostegno della più recente storiografia».
Ci sono nella storia contemporanea personaggi che somigliano a Bessarione?
«Bessarione tentò di salvare il suo impero attraverso un'alleanza strategica con l’Occidente. Fallì per non aver saputo ottenere l'appoggio della propria classe dirigente e soprattutto perché l'Occidente stesso non risultò capace di affrontare la sfida. Tra i personaggi contemporanei che in questo gli somigliano potrei menzionare l'ultimo Scià di Persia e Michail Gorbaciov».
Perché vedere Bessarione come un perdente, se salvò lo spirito di Bisanzio trasferendolo in Russia? O, se non fu lui a piroettarlo, quale altra mente politica potrebbe averlo concepito?
«È qui che sta il bello. Non lo nascondo, il mio protagonista, N., è un personaggio immaginario e non posso provare che abbia avuto un prototipo storico. Ma di una cosa sono certo, che il disegno di trasferire in Russia l'eredità imperiale di Bisanzio non fu di Bessarione, ma fu concepito ed elaborato in una cerchia di bizantini più giovani, della generazione successiva».
V. è giovane, diplomatico, letterato. Oltre all’iniziale del suo nome, ha prestato al suo eroe qualcos’altro di se stesso?
«No, non ho prestato a N. nessun mio aspetto personale. Anche se è vero che elaborando questo personaggio nutrivo grande simpatia per lui e forse si sente. Ma c'è un'altra cosa. In un certo senso N. simboleggia una civiltà che tramonta non solo per la sua decadenza e stagnazione, ma anche per il suo peso culturale di miti ed esperienze. È naturale averne nostalgia!».