La nona di Battiato
Il cantante ha girato il film Musikanten: due autori televisivi lavorano a un programma su Beethoven e scoprono di aver vissuto quei tempi in una vita precedente. Silvia Ronchey, che impersona la bibliotecaria del monastero, spia un regista d’eccezione
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La possibilità della regressione a una vita precedente è per me una certezza assoluta, fa parte integrante della mia visione filosofica del mondo. La storia che racconto in questo film va presa sul serio». Siamo a Sankt Gallen, il paesino svizzero vicino a Zurigo che le nostre nonne evocavano per i suoi celebri pizzi e i libri di testo ricordano per il suo meraviglioso monastero di età carolingia. La fama degli abati di San Gallo, la sapienza dei codici vergati e miniati dai suoi scribi, la scienza dei laboriosi e dotti benedettini che vissero tra queste mura furono tra i pochi fari di cultura nelle tenebre del Medioevo occidentale. È qui, nell’antica Stiftsbibliothek gremita di manoscritti e incunaboli, che il neopitagorico Franco Battiato ha finito di girare il suo secondo film, Musikanten, che sarà presentato il 4 settembre alla Mostra del cinema di Venezia. È la storia di due autori televisivi che, nel preparare un programma sugli ultimi momenti della vita di Beethoven, scoprono di avere vissuto quei tempi e quei fatti in una loro stessa precedente vita.
Battiato ha fatto un lavoro preparatorio non comune, ha consultato tutto quanto è stato scritto sull'ultimo Beethoven: «Anche se la lettura decisiva - confessa - è stata quella dei sei volumi di epistola, che ho letto interamente, l’ultimo ancora in bozze». Alto, atletico, sempre ottimista e sorridente, Battiato è però il contrario dello stereotipo del regista intellettuale tormentato e sempre insoddisfatto. «Sta venendo bene, ma non diciamolo troppo in giro, facciamo le corna», ride. E le fa con la mani mentre gli attori Sonia Bergamasco e Fabrizio Gifuni si avvicinano. Pur essendo un cosmopolita e un intellettuale révolté ai sistemi di potere della Sicilia, Battiato coltiva la sua radice siciliana nel calore spontaneo dei gesti, nella dolcezza dell’accento, perfino nell’ancestrale filosofia.
Il monastero, nel film, è un centro di studi ispirato al rieuré di Fontainebleau-Avon, l’istituto per lo sviluppo armonico dell’uomo di George Gurdjieff, il grande guru del primo Novecento. Io sono la bibliotecaria che accompagna in giro la coppia di visitatori. In tutto per una durata complessiva, nel film, di poco più di qualche secondo. Ma sono talmente compresa nella parte che riesco a dire in tono innaturale anche le mie pochissime battute di copione.
Loro due, gli attori, mi sovrastano in tutti i sensi. Non solo per bravura, ma letteralmente. Sono altissimi, belli, lui parla ad alta voce in greco, lei è radiosa nella sua gravidanza anche se nelle parti antiche del film impersona un maschio, un bellissimo principe al quale il suo viso androgino presta, davanti all’obiettivo, tratti perfetti.
«Di macchine da presa in realtà ce ne sono quattro, tutte diverse fra loro, dalle microtelecamere digitali alla cinepresa con pellicola», spiega Battiato. E continua: «La diversità tecnica sembrava inconciliabile. Invece è affiorata una compatibilità sorprendente». La difformità si è trasmessa dal rapporto tra le macchine a quello tra i piani temporali, tra il detto e l’indicibile, l’agito e il sognato. Lo scarto fra i tipi d’immagine serve a riprodurre, o meglio a tradurre in emozione, il divario tra il mondo ottocentesco in cui vive e muore Beethoven, interpretato da uno straordinario Alejandro Jodorowsky, il regista della Montagna sacra alla sua prima prova di attore, e il mondo presente, così sconfortante nel suo depauperamento spirituale, e però brulicante di imprevedibili risorse per recuperare la dimensione di cui Battiato va principalmente in cerca: quella, perduta, dell'eccellenza, o, meglio, il suo senso.
«Punto a descrivere, visto che sta scomparendo, il senso dell’eccellenza», dice. «La figura di Beethoven - spiega Battiato - è un pretesto per immettere questo senso nella narrazione del film. Ma anche parlare di narrazione è improprio. Voglio emozionare il pubblico a un livello superiore e più profondo di quello della storia in se stessa. Come altri registi, cerco di rompere la logica del racconto tradizionale. Faccio il contrario di quello che nel girare un film qualsiasi produttore americano vorrebbe fosse fatto». Per essere più libero, e a conferma di quanto gli prema la scommessa, Battiato ha messo in campo, a fianco di Rai Cinema, una casa di produzione propria, l’Ottava.
«Story, story, story, i produttori americani non vogliono altro. Così anche nel cinema il senso dell’eccellenza si va perdendo». Battiato cerca di filmare invece ciò che sta nelle dimensioni trasversali e segrete di una storia, il suo moltiplicarsi da una a molte, il divaricarsi in più piani di qualsiasi evento. E quella tra mondo presente e passato è la prima di tutte le divaricazioni.
Dalle immagini del girato che ho guardato la sera prima senza sonoro sullo schermo di un computer ultrapiatto dell’affiatatissima troupe, sembra che il vecchio Beethoven/Jodorowsky si muova in un’altra dimensione. L’effetto non è quello di un film con parti in costume. L’effetto è rievocare quella favolosa, impalpabile mistura di fasto decorativo e miseria individuale di cui ciascuno di noi ha avvertito la presenza a volte, visitando luoghi dell’Ottocento rimasti quasi intatti: la casa di Goethe a Weimar, con i suoi tabarri logori e gli smaglianti calchi di sculture antiche sul grigioazzurro dello sfondo neoclassico; l’esiguità e trasandatezza del baule da viaggio di Dostoevskij a San Pietroburgo, la modesta caffettiera nell’opulenta casa borghese di Balzac a Parigi... La pellicola, in queste parti di sprofondamento nel passato, e anche nell’interiorità dell’anima, le due cose non essendo distinte per la filosofia di Battiato, è stata impressionata da immagini di una qualità, si direbbe, fantasmatica. Le sbrecciature dei muri, le pozze d’acqua nei corridoi, la coperta consunta in cui Jodorowsky si avvolge nella penombra con un gesto che oggi abbiamo dimenticato e ritroviamo solo in qualche anziano zingaro. E la luce scura, le ombre, la sensazione che la pellicola appena girata sia già vecchia, antica anzi, che emerga dal passato.
«Oh no, ma è un trucco» ride Battiato, contento come un ragazzino che gioca al piccolo chimico. E spiega: «Siamo riusciti a girare le scene di Beethoven con un’illuminazione di tre candele, senza le luci di scena che si usano in questi casi. Tutti dicevano che era impossibile, e invece... Diglielo tu», e fa un cenno al direttore della fotografia, Daniele, che è giovane, come tutti i suoi collaboratori tonici. «Per quelle scene abbiamo usato una speciale pellicola giapponese ultra sensibile. Quando l’abbiamo spedita a sviluppare nessuno credeva che il risultato sarebbe stato accettabile. Abbiamo detto al laboratorio di tirarla a quattromila Asa, ci consideravano pazzi ma poi ecco qui, si vede tutto, non è neanche un po’ sgranata». No, non lo è. La bizzarra alchimia dell’esperimento ha fatto sì che queste parti, sebbene tecnicamente impeccabili nel loro effetto pittorico, non assomiglino a niente che abbia già visto. Esse potrebbero ricordare un film espressionista. La cosa che esprimono meglio è l’alienità, il senso di sfondamento in una dimensione in linea di principio irraccontabile e forse inconcepibile se non irrazionalmente, per emozioni profonde e illogiche: quella del passato.
Se la parola religione, dal latino religio, evoca anzitutto il senso di un legame (dell’io con il tutto, dell’anima individuale con l’anima del mondo), la religione di Battiato è, dice, «la visione assoluta» del passato come eterno ritorno, in senso cosmico ma anche nel microcosmo della memoria di ciò che, nella circolarità della metempsicosi, rinascendo abbiamo dimenticato.
Mentre guardiamo lo schermo al plasma incastonato nell’immenso scenario barocco della biblioteca e vediamo danzare i sufi di Gurdjieff in un vecchio filmato, gli domando quale sia per lui la religione migliore, quella che assomiglia di più, oggi, al pitagorismo antico. «Nel complesso il buddhismo, senza dubbio. I singoli mistici ci entusiasmano, da qualsiasi religione provengano: che siano i neoplatonici estatici o i sufi islamici, gli inebetiti cristiani o i sofisticati qabbalisti ebrei. I singoli li trovi ovunque, ma on si trova ovunque un’intera religione vivente e interamente condivisile come questa».