Turchia, passa da Bisanzio la via per l'Europa
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«Sa cosa significava la parola “turco” al tempo dell’impero ottomano? “Contadino grossolano e incolto”. L’invenzione di un’unica identità nazionale turca, o come si dice oggi di una “sintesi turco-islamica”, è artificiosa e recente. Da noi la razza non ha mai contato, al contrario: siamo da sempre una civiltà multietnica e cosmopolita.»
A parlare è Zülfü Livaneli, in Italia per Terradilibri, la nuova fiera del libro di Siena, di cui la Turchia è ospite d’onore. Quest’uomo elegante, dai sottili occhiali dorati, è stato per trent’anni il dissidente-simbolo della Turchia contemporanea, l’artista combattente, l’intellettuale trasgressivo, il mito vivente dell’intero mondo turco. Dalle librerie di Istanbul ai caffè di Trebisonda, dai villaggi di pescatori della costa egea alle comunità curde intorno al lago di Van (sfondo del suo ultimo best-seller, “Felicità”, ora tradotto da Gremese), fin dagli anni 70 cantare le sue canzoni significava aderire a un’idea di libertà, tolleranza e convivenza tra le etnie, a una ribellione profonda all’ideologia costrittiva del regime. Una posizione che lo ha portato da giovane in prigione, poi in esilio, ma che si è rivelata anticipatrice. La Turchia di oggi, nel suo altalenante avvicinamento all’Europa, lo vede saldo ai vertici delle sue istituzioni: deputato, oltre che professore universitario, ambasciatore dell’Unesco, animatore di istituzioni internazionali come il Forum sul futuro del pianeta fondato con Gorbacev o il Comitato per l’amicizia greco-turca fondato con il compagno di sempre, Mikis Theodorakis.
Nella cover dell’ultimo album inciso con Theodorakis ha scritto che se credesse nella reincarnazione direbbe di essere stato greco.
Alla reincarnazione vera e propria non ci credo, ma credo in quella che possiamo chiamare reincarnazione culturale. La nostra storia è da un lato quella di un impero, fin dall’inizio multiculturale, e dall’altro è la storia familiare di ciascuno di noi. “Da dove vieni” è la prima cosa che si chiedono fra loro i turchi quando si incontrano.
Lei da dove viene?
Per metà dalla Georgia, per metà dall’ex-Jugoslavia. Tutti noi turchi abbiamo un’identità plurima, che rimanda a un altrove della memoria e si presenta a volte come una sorta di sotterranea nostalgia.
Viene in mente l’üzun, quella specie di spleen che Pamuk evoca parlando di Istanbul.
Questo invece in turco lo chiamiamo ozlem. E’ un nodo interiore di nostalgia che proviene dalla molteplicità delle nostre radici, quasi l’eco oscura dei grandi spostamenti di popoli che hanno formato la Turchia moderna. Che è ben lontana da quell’”unica singola identità turca” per la quale stiamo, ad esempio, combattendo contro i curdi. Ma che non esiste, come affermano ormai apertamente perfino i più alti esponenti dell’esercito, protagonisti della repressione anticurda: “Avremmo dovuto lasciarli con la loro cultura”, riconoscono. “Abbiamo commesso un grave errore”.
Chi ne è colpevole?
Parlando dei curdi, anzitutto c’è il grande errore del cosiddetto “scambio di popoli” dopo la guerra di liberazione turca. Oggi saremmo molto più vicini all’Europa se nel ’56 non ci fosse stata quell’espulsione dei greci da Istanbul e dalla costa egea che ha distrutto migliaia di anni di tradizione. Il gap è stato riempito dai curdi. Sostituire una cultura ionico-egea con una cultura mesopotamica poteva solo essere esplosivo.
Le deportazioni di massa erano cominciate ben prima, anche prima del ventennio di Atatürk.
Che tra parentesi era un tipico macedone biondo e con gli occhi blu, lontano dal suo ideale di turco asiatico. Se vogliamo andare alla radice del dilemma, i veri colpevoli sono i Giovani Turchi. I loro errori criminali, a cominciare dal genocidio degli armeni, la loro ossessione di un’identità nazionale posticcia, estranea alla tradizione dell’impero, hanno devastato il paese.
Reagendo alle vessazioni subite dalla chiesa ortodossa in Turchia, il patriarca ecumenico Bartolomeo ha osservato che sotto i sultani c’era più tolleranza che sotto l’odierna repubblica.
Non c’è dubbio. Nei secoli ottomani le diverse religioni vivevano separate ma libere, in un regime di tolleranza. Cosi’ come le diverse tradizioni, culture, etnie. Greci, armeni ed ebrei avevano le cariche più alte, erano loro i visir, gli ambasciatori, l’élite amministrativa, secondo la tradizione bizantina, mantenuta viva fin dalla conquista di Costantinopoli nel 1453. E quando l’ultimo sultano dovette reprimere la grande rivolta di Creta il migliore dei suoi generali era proprio un greco.
Un’identità, quella greco-bizantina, che oggi è invece penalizzata dallo stato turco: pensiamo a quell’atto simbolico che è stata la chiusura della millenaria scuola teologica della Halki.
La Halki dev’essere riaperta e l’eredità bizantina recuperata, se la Turchia vuole entrare in Europa. Il suo futuro è nel suo passato. Ma, questo è il problema, la moderna repubblica turca riuscirà ad accettare tutta questa ricchezza di civiltà?
In un periodo in cui si parla tanto di scontro di civiltà, la storia può esemplificare dunque non solo la loro possibilità di convivenza, ma anche la loro radice comune, formata nel melting pot ottomano e già bizantino.
E già romano. Il titolo ufficiale dei sovrani turchi era “sultano di Rûm”, cioè di Roma. E il poeta-simbolo della nostra cultura, quello che anche il cosiddetto “turco-islamico” adora, è il grande poeta trecentesco Rûmi, il cui nome significa “romano”, cioè bizantino.
Approfondimenti:
Pagina personale di Omer Zülfü Livaneli