Il cielo in una stanza
Tra le meraviglie di Isfahan: la città iraniana costruita durante il regno di Shah Abbas è il punto di massimo splendore dell’arte persiana. Silvia Ronchey ne ha parlato con isabella Ducrot
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Ero nella mia casa di campagna in Umbria. La piscina è finita, con il suo mosaico sul turchese, ma intorno il prato non è ancora stato seminato e ce solo terra battuta, di un color zucchero caramellato. Lo sposalizio dell'acqua turchese con la terra mi colpisce profondamente, come un déjàvu. È l'effetto di un ricordo. Quello di Isfahan».
Isabella Ducrot, artista fortemente influenzata dai molti viaggi fatti in Oriente, è una grande esperta di antichità persiane. Conosce bene Isfahan e la straordinaria storia della città della dinastia dei Safavidi, costruita a sud di Teheran a cavallo tra il 1500 e il 1600 sotto Shah Abbas e delimitata dalla linea del grande bazar. «Per tutto l’Est - dice - l’architettura bizantina è stata fondamentale. La civiltà sassanide, nella zona della Persia, e quella sogdiana, nei dintorni dell’Uzbekistan, furono straordinarie ma non portarono nulla di sostanzialmente nuovo rispetto a Bisanzio. Fu l'avvento dei popoli delle steppe, dai Selgiuchidi in poi, a infondere vigore e novità al sincretismo artistico della civiltà iranica. Isfahan è l’espressione ultima e insuperata di tutto questo, il punto d’arrivo dell’estrema raffinatezza persiana, portata dalla linfa turchesca al suo limite massimo, alla sua soglia di crisi, al di là della quale c'è solo la decadenza».
Acqua, aria, terra, fuoco: i quattro elementi primari, quelli di cui parla Empedocle - non a caso molto influenzato dall’antica sapienza iranica - a Isfahan «sorgono spontanei agli occhi, un’impressionante evocazione fisica dell’essere, della natura divinizzata. C’è l’acqua, il cui turchese è esaltato dal bruno della terra nelle grandi vasche e nella miriade di canali che scorrono per le strade e su cui gli alberi si curvano, come ad assorbire quel po’ di umidità che ne emana. C’è la terra, onnipresente nel polverone che è la sua manifestazione più immediata, con cui i persiani convivono con meno fastidio di noi. La luminosità a Isfahan è enfatizzata dal rapporto con la terra. La piazza reale, grande sette volte piazza San Marco, là dove sorge il palazzo Ali Qapu, era fino a trent’anni fa una distesa di terra battuta, nata come piazza d’armi, luogo di violenza e polvere su cui scintillavano le moschee. A Isfahan può capitare che la terra e il cielo si confondano, tanto l’aria è piena di polvere. Ed è nell’elemento aria che si innalzano le cupole celesti, i minareti screziati, gli iwan, i giganteschi portali istoriati».
«In Persia - continua Ducrot - il cielo è materia colorata. Non fa passivamente da sfondo alle costruzioni, anzi le cupole sembrano avere la funzione di esaltarlo, indirizzando lo sguardo verso l'immensa distesa celeste. In certe ore del giorno la linea di demarcazione tra la volta del cielo e le cupole si attenua fin quasi a farle sembrare tutt’uno. Perché, accanto alla loro perfezione architettonica, c’è una fitta decorazione, preponderante. È essa a consentire la danza di Isfahan con il cielo. Viene da pensare che i capomastri che progettavano queste cupole avessero molto chiaro in mente l’effetto, sui corpi architettonici, del cambiamento della natura durante il giorno e tenessero conto delle variazioni atmosferiche».
La conoscenza del cielo è sempre stata l’elemento principe dell’antichissima tradizione sapienziale persiana, essenzialmente astronomica e astrologica. Il carattere zodiacale di quest’architettura salta agli occhi anche negli interni del palazzo Ali Qapu. «Questo ci porta al quarto elemento, il fuoco. L’Iran, anche se islamizzato, rimane sempre la terra di Zoroastro e del culto del fuoco, che ancora oggi viene praticato dai pochi fedeli residui nella zona di Yazd». È dunque il fuoco, onnipresente nelle profondità della psiche persiana, a esprimersi nella qualità fiammeggiante dei colori? Ed è sempre il fuoco che spiega la cura religiosa degli architetti per l’inclinazione dei raggi solari e l’interazione dei loro manufatti con la luce? «Quello che ho scoperto e cercato di trasferire nelle mie opere da quando ho visitato Isfahan è la possibilità, sorprendente in un’arte estremamente sofisticata ed elaborata, di restare in rapporto con la natura circostante. A Isfahan la natura non è uno sfondo indifferente, ma l’opera d’arte suprema in cui l'arte umana si incastona rispettosamente. Abbiamo una prova definitiva di questo nel Palazzo delle Quaranta Colonne. Se le contiamo, le colonne sono venti, ma il Chehel Sotoun è chiamato così perché nel computo viene incluso anche il loro riflesso nell’acqua. Capisce che cosa voglio dire? L’opera umana è un'aggiunta, umile, alla natura». Un inserto in ciò che gli antichi chiamavano kosmos, parola che in greco vuol dire sia “ordine naturale” sia “mondo”. «E infatti Isfahan all’epoca di Shah Abbas veniva chiamata “la metà del mondo”. Isfahan è celeste sia per il suo colore dominante, sia per il suo rispecchiarsi nel cielo, dunque è metà del cosmo».
Anche in Occidente abbiamo architetture che si innalzano al cielo e grandi cupole, eppure fanno tutt’altro effetto. «Certo. San Pietro, nel suo biancore, non suggerisce affatto questo: è plasticità, contrapposizione. Vorrei citarle una frase severissima di Robert Byron, il maestro di Chatwin: “L’esistenza di Santa Sofia - scrisse - è atmosferica, quella di San Pietro concreta in modo incombente, soverchiante. L’una è una chiesa per Dio, l’altra un salotto per i suoi rappresentanti. Luna è consacrata alla realtà, l’altra all’illusione. Perché Santa Sofia è grande, San Pietro è spregevolmente, tragicamente piccolo”».
E’ famosa la descrizione che Byron fa, nella Via per l’Oxiana, della cupola della moschea di Sheikh Loftallah. Byron vi esalta lo «splendore vertiginoso del disegno astratto». È lo stesso che ha contagiato le sue opere, in cui l’arte persiana si rispecchia trasformandosi in arte contemporanea astratta? «Nelle mie opere ripropongo l’elemento ripetitivo come protagonista dell’immagine. Vede, la ripetizione in Occidente è sempre subordinata a qualcosa. Per noi la decorazione incornicia un evento, un soggetto. In Oriente invece è fine a se stessa, è il punto focale di un’emozione. Il ritmo vitale, il battito del cuore si esprimono con elementi ripetitivi, che non a caso sono anche quelli musicali. È una celebrazione dell’infinito virtuale. Il segmento decorativo rappresenta quei che possiamo cogliere dell’infinito».
Anche questa concezione fa parte della sapienza scientifica e filosofica della terra dei Magi, non trova? «Poter considerare belli dei piani in cui l’unico elemento è un cerchio che si ripete in una proliferazione senza fine, suggerendo che potrebbe ripetersi all’infinito, significa spostare l’arte dall’uomo alla natura, a un universo in cui l’uomo è solo un granello di polvere».