Turchi intolleranti? Colpa dell'Europa
Silvia Ronchey intervista Jason Goodwin
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“Il passato è un altro paese. In un mondo globalizzato, standardizzato, asservito al materialismo e a un individualismo vuoto, l’unico modo per viaggiare veramente è farlo senza uscire di casa, o almeno di biblioteca. Solo così possiamo vedere le differenze e le affinità tra quella che chiamiamo la nostra civiltà contemporanea e le altre, che in realtà si stringono in un’unica grande civiltà alternativa all’oggi. Una sorta di universale Ancien Regime, che cerco in tutto quel che faccio, nella mia scrittura come nei miei viaggi a piedi attraverso il mondo balcanico e l’Europa orientale”.
A parlare è Jason Goodwin, ospite al Noir in Festival di Courmayeur per presentare il suo nuovo libro, “Il serpente di pietra”, appena uscito da Einaudi. Dopo il successo mondiale dell’”Albero dei giannizzeri”, la nuova indagine del detective eunuco Yashim, ambientata sempre nella Costantinopoli degli anni 30 dell’Ottocento, ci porta ancora più a fondo nella ricerca, materiale e metaforica, dell’eredità bizantina di cui l’autore si è invaghito studiando a Cambridge.
Possiamo dire che l’eredità bizantina e quella ottomana si iscrivono in un’unica civiltà?
Dopo la conquista di Costantinopoli del 1453, gli ottomani furono rapidissimi a adottare le strutture di governo di Bisanzio. Le leggi, i servizi, il sistema di amministrazione fondiaria, quello fiscale, in definitiva il rapporto tra stato e cittadini era lo stesso che a Bisanzio.
L’impero multietnico e multiculturale dei sultani era davvero più tollerante della moderna repubblica turca, come ha lasciato intendere il patriarca ecumenico Bartolomeo I reagendo alle vessazioni crescenti subite dalla minoranza greca ortodossa in Turchia, a partire dalla chiusura dell’antica scuola teologica della Halki?
Certo. Il mondo ottomano aveva il massimo rispetto per le differenze, che fossero di religione o di razza, di grandi tradizioni culturali o anche di semplici costumi quotidiani. E’ emblematico, ad esempio, il caso della flotta turca: una grande flotta, potentissima, in cui però, a differenza di quelle occidentali, ciascuno a bordo cucinava il proprio pasto, secondo le proprie abitudini e preferenze. E questo si applica a tutte le altre tradizioni che provenivano dalle varie etnie e che convivevano fin dai tempi di Bisanzio e anche, probabilmente, dai più antichi tempi dell’impero romano.
Crede che il mondo turco oggi debba guardare a quel suo passato per ritrovare l’antico ruolo di mediatore tra civiltà, in un momento della nostra storia attuale in cui è tanto necessario?
I turchi islamici non sono ancora completamente a loro agio con il loro passato. O meglio, alcuni lo sono e lo sono sempre stati: i turchi metropolitani di oggi così come l’élite plurietnica di un tempo. Altri lo sono meno, anche perché, diciamolo, stiamo rendendo molto difficile il loro ingresso in Europa.
Per esempio?
Bè, per esempio l’accusa di “genocidio”, e da parte, poi, proprio dell’Austria, poteva essere risparmiata.
Non pensa, considerando in particolare quel mondo cosmopolita ottocentesco in cui si muovono i protagonisti dei suoi romanzi, che la Turchia sia in realtà sempre stata parte dell’Europa?
Un po’ sì, anche se certamente in molti momenti della sua storia – penso alla guerra alla Bulgaria – la Turchia si è contrapposta anche brutalmente al mondo europeo. Ma l’ironia è che i turchi sono diventati meno affini a noi e meno buoni ai nostri occhi proprio nel momento in cui hanno adottato i nostri costumi europei.
Parla della rivoluzione di Ataturk. Però oggi c’è un umore antikemalista che serpeggia trasversalmente, in Turchia come in Europa.
Ma non dobbiamo dimenticare che la storia repubblicana della Turchia è la nostra storia: l’abbiamo più che influenzata.
E la svolta fondamentalista cui abbiamo assistito negli ultimi decenni?
Farei attenzione a parlare di fondamentalismo per l’islam turco, che è sempre stato un caso a sé: più tollerante, come dicevo, e aperto a diverse influenze, la Cina, l’India, il cuore sciamanico dell’Asia Centrale… Per gli ottomani la convivenza tra islamici e cristiani era molto più normale di quello che oggi chiamiamo scontro.
Lei crede che sia veramente in atto uno scontro di civiltà?
Guardi, nella storia quando c’è scontro non è mai tra civiltà o tra religioni. Le culture tendono naturalmente all’osmosi. Il passaggio allo scontro è sempre dovuto a cause economiche o a problemi di vertice o dinastici, e questo fin dai tempi di Carlo Magno o delle Crociate. Cosicché il compito dello storico non è mai evidenziare l’opposizione, lo scontro.
Qual è il compito dello storico?
L’esatto contrario: enfatizzare ciò che abbiamo in comune.