Contro la scuola galera
Per decenni ha domato turbolente classi di liceali nello storico Visconti di Roma. Oggi che Anna Mattei è fuori, stila il suo dolente j’accuse sui danni prodotti dalle riforme. Quello più imperdonabile: abolire il piacere della lettura
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«Un carcere. Questa è la scuola in Italia. Studenti-carcerati, costretti a non muoversi dalle loro aule-celle in cui vengono visitati da professori-secondini. Tranne che per l'ora, anzi il quarto d'ora d'aria» A fare questa battagliera dichiarazione è una donna piccola, bionda, dall'espressione dolce come la voce sommessa, che non si direbbe quella di una professoressa che per trent’anni ha domato classi di turbolenti liceali. Anna Mattei (Annarosa è il nome di famiglia che ha scelto per firmarsi) ha appena pubblicato un romanzo visionano, ironico, dolente: Una ragazza che è stata mia madre (Mondadori), la storia di una donna in fuga da tutto, anche dall’io e dalle sue trappole, in cerca della via d'uscita che separa la verità dalla menzogna, con l'aiuto di una tribù di gatti sacri alla dea Iside aleggiante nell'antica capitale, tra i ruderi sotterranei dei templi egizi e il Collegio Romano di Sant'lgnazio. Prima, l’autrice-protagonista è stata una professoressa-mito della scuola italiana. Fino a quando non l'ha lasciata, in polemica con la riforma Berlinguer-Moratti, erano tanti quelli che chiedevano di iscrivere i figli nella sua sezione. La sua era la scuola più antica e più bella d'Italia, il Visconti. Pare strano sentirgliela definire una prigione. «Eppure lo è, anche per noi professori. Non abbiamo spazio, dobbiamo tenere il nostro mondo in una cartella e in dieci centimetri di armadietto».
Ma dalle cronache non sembra una disciplina carceraria quella della scuola: studenti al telefonino, fuori classe...
«Lo studente si ribella ogni cinque minuti: si distrae, chiacchiera, esce. Questo è il paradosso. La scuola è un carcere dove puoi fare quello che ti pare. Mancano le regole e il professore ha perso autorevolezza perché non è tutelato: non può mettere una nota, sospendere uno studente che quello torna con l'avvocato».
Anche quando si tratta di vandalismo o violenza contro i professori?
«Si. Vede, il tasso di violenza si è alzato ovunque, e la scuola non è che il riflesso della società. Basta vedere quel che accade nelle scuole americane e in parte di quelle europee, dove a volte sono stati introdotti anche i metal detector. Da noi no, siamo ancora in tempo a bloccare l'escalation».
Come?
«La violenza di un carcere è sempre più alta di quella di una casa. Se gli studenti fossero liberi di girare nella scuola non clandestinamente, se il loro impulso ad abitarla non fosse considerato disordine ma un diritto, allora disciplina e attenzione tornerebbero. Bisognerebbe fare al liceo come all’università: intervallo tra un'ora e l'altra, gli studenti che si muovono da un'aula all'altra. Nel gergo scolastico, quando si deve sostituire un professore assente, magari solo per un'ora, si parla di coprire una classe scoperta: non è già linguisticamente violento? E poi si stupiscono se occupano le scuole!».
Allora è d'accordo con le occupazioni studentesche?
«Ma siamo matti? All’indomani i genitori arrivano a dirci: guardate come sono stati bravi i nostri ragazzi, non hanno rotto quasi niente. Ma la scuola è un luogo pubblico! Se l'immagina se, dopo avere occupato un ufficio postale, ci si vantasse anche di non averlo danneggiato? Eppure occupare le scuole in Italia è diventata un’attività normale, quasi lodevole».
È per questo che se n'è andata?
«No. Le occupazioni sono una conseguenza di ciò che dicevo prima. Le autorità le tollerano perché hanno la coscienza sporca: sanno di non avere fatto niente per migliorare il carattere costrittivo del nostro ordinamento scolastico».
Ma la famosa riforma?
«Quella, poi! Ha cambiato solo ciò che non bisognava toccare. Avevamo il curriculum migliore del mondo. Non parliamo della scuola americana, ma neppure negli altri paesi europei si insegnavano più filosofia, letteratura, tutto quello che rendeva un liceale italiano infinitamente più preparato di uno francese o tedesco o spagnolo. Le riforme Berlinguer-Moratti sono andate a toccare proprio i contenuti, mentre andava riformata l'organizzazione del lavoro e degli spazi».
E come è successo?
«Nella lotta per la riforma del liceo ha vinto il partito dei linguisti e dei pedagogisti, che ha annientato i disciplinaristi».
Cioè?
«Il metodo prevale sulla materia. La letteratura è diventata grammatica. I ragazzi non devono più leggere i libri per i loro contenuti, ma fornire “prove di comprensione del testo” in senso grammaticale. I professori devono imparare quasi esclusivamente i metodi di insegnamento. Ma che significa? La didattica è compenetrata nella disciplina, l'insegnamento è eros, entusiasmo, senza contenuti è lettera morta».
E la riforma ha tolto i contenuti?
«Certo, nel momento in cui ha tolto i libri La lettura è il centro dell'insegnamento e risveglia dalla depressione questi adolescenti addolorati, dall'io disperso. 0, per meglio dire, la terapia è la condivisione della lettura, è discutere avendo in mano tutti lo stesso libro, ma un libro intero, non dissolto nei vari "percorsi monografici" dei manuali».
Ce l'ha anche lei coi manuali?
«Ma no, il manuale serve, però snello: non può essere un surrogato di tutto, va affiancato da uno o più libri interi, romanzi, saggi».
Dunque si allinea ai tanti intellettuali che, da Luciano Canfora a Pietro Citati, nella riforma della scuola superiore e dell'università, nel suo sistema di moduli, crediti e debiti, nello spezzettamento introdotto, hanno denunciato la scomparsa del libro?
«Si. Senza il libro intero non c’è formazione, non c'è iniziazione. Le statistiche registrano una caduta verticale della lettura dopo i 14 anni. Perché dopo la terza media la scuola non dà più indicazioni precise sui libri».
Quindi la linea pedagogica della riforma è sbagliata?
«Completamente, andrebbe abrogata. Rischia di interrompere la catena di trasmissione del sapere. Di sottrarre alle nuove generazioni il diritto all'istruzione e l’abitudine alla lettura, che sono l'unica possibilità di riscatto e si acquisiscono nell'adolescenza».
La protagonista del suo libro è attratta dall'«irresistibile barlume di luce trasparente appena sotto la pelle delle ragazze e dei ragazzi che incontrava ogni mattina», ed è questo barlume che le fa sperare di poter abbattere «i codici vigenti tra le mura degli edifici fatiscenti all'interno dei quali erano rinchiusi per imparare a non sentire e a non pensare». «Appunto. Da quelle mura sono scappata perché l'edificio stava crollando». In effetti lei descrive, nel libro, un crollo apocalittico di quello che chiama "il Palazzo”. È una metafora di ciò che sta accadendo alla scuola? «Non solo. Il libro è una confessione personale e il Palazzo non è solo quello della scuola pubblica. Pensi che quel crollo me lo sono sognato...».