Vi preparo due anni da mito
Silvia Ronchey a colloquio con Irene Papas
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Nel suo luminoso attico romano Irene Papas ci accoglie con semplicità. Ma la sottile tunica purpurea, sovrapposta all’abito di cachemire nero, sembra un costume da teatro classico. Come il bellissimo viso senza tempo, dove i grandi occhi neri sono sempre stati sottolineati da un bistro naturale. Ha appena ricevuto uno dei premi più prestigiosi del mondo, il Leone d’Oro alla carriera della Biennale di Venezia. Ma quando ha avuto la notizia, ha lanciato una provocazione: non datemi premi, ma soldi.
“Per carità, tutti i premi sono amore e onore, l’oro del Leone mi ha commosso. Però, hai presente il Nobel? Dà a chi lo riceve i mezzi per continuare a fare ciò per cui lo ha ricevuto: se è uno scienziato per continuare la ricerca, se è uno scrittore per continuare a scrivere. Un premio alla carriera è un premio dato alla vita. Ma io posso vivere solo mettendo in scena tragedie: datemi i mezzi per farlo, questo intendevo dire. E non ai veneziani, ma a chi potrebbe finanziare l’arte”.
Quindi non si può fare arte senza denaro?
L’arte è legata al denaro, e al potere. Come tutto. E’ politica.
Tu hai cominciato la tua carriera con film molto politicizzati, come “Zeta” di Costa Gavras, il film che denunciava il regime dei colonnelli.
No, io ho cominciato con i testi dei tragici. E sì, sono tutti testi politici. Parlano tutti delle stesse cose: dello stato e della chiesa, del potere e del denaro, della violenza, della guerra, della mistificazione, dell’ideologia.
Scusa, cosa c’entra la tragedia greca coi rapporti tra stato e chiesa?
Cos’altro rappresenta il ruolo di Tiresia nella tragedia di Edipo se non l’oscurantismo della casta sacerdotale? la forza del braccio secolare della chiesa? brutale, e non solo per metafora? A quell’epoca le braccia degli uomini di chiesa erano forti anche fisicamente. Erano guerrieri, energumeni. Pensa alla durezza, al senso di parità nel braccio di ferro tra Creonte e Tiresia: “Io ti ho dato i soldi!” “E io ti ho fatto re!”.
Nel mimare il dialogo tra Tiresia e Creonte la silhouette sottile si alza di scatto dal divano, si inarca, si impunta. “Zeta” di Costa Gavras era una tragedia greca. Il potere e i soldi, la forza e la dittatura.
Forse anche grazie a quel film, la Grecia è passata dalla dittatura alla democrazia.
Il che non cambia le cose. Anche nel regime che chiamiamo democrazia a decidere è sempre il denaro.
Sei pessimista.
Al contrario. Sono ottimista. Credo si possa migliorare la natura umana. Ma serve la cultura. Vedi che oggi i ragazzi non vogliono andare all’università? Hanno ragione. Lì non imparano niente. Potrei raccontarti infinite storie su cosa sono diventate oggi le università, greche ma anche italiane.
Sapessi io.
Se la catena di trasmissione del sapere è interrotta dominano l’improvvisazione, la frustrazione, l’avidità. Siamo vittime di una diseducazione profonda, capillare ed estesa, che ci viene dall’America. O meglio, da quello che ci viene proposto come modello americano. Perché poi l’America in sé, per le sue élites, ha università magnifiche. Che però non sono di stato, e sono accessibili solo a una minoranza. Mentre alla maggioranza, e al resto del mondo, propone l’antitesi della cultura.
Vedi che ho ragione? Sei la stessa di sempre, uguale ai tempi di “Zeta”. Radicale, egualitaria, antiamericana. Con la differenza che ora sei stata delusa dalla politica.
Io non sono delusa dalla politica perché non ho mai avuto speranza nella politica, è chiaro? Non ho mai avuto illusioni. Non ho mai avuto un partito. Ma ho sempre avuto un’ideologia, quella sì. E la mia ideologia sia chiama axiokratìa. Sai come tradurlo?
Certo. Meritocrazia.
Ed è un’ideologia fallimentare. Anche se moralmente funziona, politicamente no.
Funziona al contrario.
Appunto. I politici sono impreparati ai compiti che lo spoil system gli affida. Mettessero mai qualcuno nel posto che gli permette di fare quello che sa fare. No, a fare cultura mettono i manager, a fare i manager mettono i professori universitari. E così via.
Peggio degli anni Sessanta?
Mah. A me basta che si conoscano le cose prima di farle. Come si usava a Bisanzio.
Tu ami Bisanzio. Hai scritto un atto unico su Teodora, hai inciso, con Vangelis, le cantate di una poetessa bizantina del IX secolo, Cassia, e gli inni della tradizione ortodossa. Hai anche progettato un serial sulla storia bizantina raccontata attraverso le sue grandi donne.
Era un progetto con la Rai, ma all’ultimo si è arenato. Come quasi ogni tentativo di fare cultura in televisione. Io però non mi arrendo. Sto scrivendo un altro serial. Parlerà di politica, di soldi e di potere, e sarà incentrato sulla storia di una famiglia.
Tipo Dallas o Dynasty… Ma qual è la famiglia?
Gli Atridi.
Non ci credo! La famiglia archetipica. E’ un’idea geniale, ma durerà all’infinito.
Due anni di puntate. Da Atreo e Tieste passando per Giasone e gli Argonauti — i primi pirati — e per Medea e per il ciclo omerico e i tragici.
Meglio dei Darling, quelli di Dirty Sexy Money.
Molto meglio. Sesso, denaro, potere: più ci avviciniamo agli archetipi mitici, meglio passa il messaggio. Qui saranno due anni di mito puro.
In tv?
La tv è un’invenzione fantastica, è miracoloso che arrivi in tutte le case. Ma cosa porta? L’interesse commerciale, e non parlo solo della pubblicità, ma anche delle storie, che fanno il gioco degli inserzionisti, degli sponsor. Una volta nell’antica Grecia un magnate manteneva per un anno il coro, che interveniva con commenti propri tra una scena e l’altra della tragedia. Ora cosa fa da intermezzo a un film o a un serial? La pubblicità delle calze!
E cosa avrebbe portato nelle case il serial su Bisanzio?
La dimostrazione esemplare che tra le civiltà può non esserci opposizione, ma integrazione. Un esperimento millenario di multietnicità. Di Bisanzio amo la sapienza politica, la cultura dello stato. La sua meritocrazia, che consentendo di accedere alle carriere attraverso l’istruzione statale e la selezione universitaria dava la possibilità di rinnovare le classi dirigenti prendendo il meglio dalle nuove etnie che man mano incorporava. Pensiamo a Costantinopoli, quell’“enorme foresta metropolitana”, come la chiamavano i viaggiatori. Come ha potuto vivere per undici secoli, quella foresta, senza degradarsi? Con tutto quel caos, quella mescolanza di cristiani, islamici, ebrei, e genovesi e veneziani e turchi… Eppure, il melting pot ha prodotto tanta bellezza quanta oggi neppure possiamo immaginare.
Potremmo, se la storia bizantina si insegnasse meglio nelle scuole e nelle università.
E’ un tale peccato che non accada. Lo stato bizantino era preveggente, anzi, veggente. Bisanzio è stata una profezia. C’era già tutto. L’università pubblica. La possibilità per le donne di farsi una cultura. Pensiamo a Anna Comnena, o a sua nonna, Anna Dalassena. L’incarnazione più completa di quel potere femminile che è stato una caratteristica unica della politica di Bisanzio. Era su questo che avrei voluto fare il mio serial, sulla catena femminile che ha fatto la storia bizantina.
Tu sei un’icona bizantina, basta guardarti in viso. Saresti una perfetta Anna Dalassena.
Sì, potrebbe essere il mio ultimo ruolo di attrice. Potrei farlo. Per Bisanzio.