L'amore che tragedia. La cura, la tragedia. Greca
Il teatro classico che guarisce dai dolori della vita. E risolve i probemi della società educando i cittadini. Oggi come allora. In Italia per il Leone d’Oro alla carriera, l’attrice racconta la passione per Sofocle. E l’odio per chi lo profana
Articolo disponibile in PDF
“L’amore? E’ una sconfitta in partenza”. L’intenso viso di Irene Papas ha un sorriso di sfida. “Lo hai capito o no che sto citando Sofocle? E’ il coro dell’Antigone: ‘Amore invincibile che chi ti ha dentro è pazzo’. In Grecia diciamo che solo due cose ci rendono veri: l’amore e la follia. Se vediamo un pazzo per strada diciamo: è innamorato”.
Irene Papas è venuta in Italia per ritirare il Leone d’Oro alla carriera, che le è stato dato dalla Biennale di Venezia il 20 febbraio, in coincidenza con l’inaugurazione del 40° Festival Internazionale del Teatro. L’esilità della figura, affondata nel velluto del divano, contrasta con la potenza dello sguardo, che passa continuamente dalla drammaticità all’ironia, e con la forza delle parole.
Anche i filosofi greci dicevano che l’amore è una patologia psichica, una “mania”. Ci sarà pure un modo per guarirla.
Che sia bello o brutto, l’amore vincerà sempre. Specialmente quello brutto. Perché l’amore vero è un sì incondizionato. Alla vita.
Ma l’amore è più forte della vita, è forte come la morte secondo il Cantico dei Cantici.
Quanto mi piace. L’ho anche cantato, sulla musica di Vangelis. Racconta la forza enorme dell’amore, più dolorosa per la donna che per l’uomo.
Perché? Non credi che uomini e donne siano uguali e sentano allo stesso modo?
Ovviamente. In greco abbiamo un’ottima parola, anthropos, che significa uomo ma che posso riferire a te o a me perché designa la specie, non il genere. Che l’amore faccia soffrire di più le donne non è un dato naturale ma — come posso dire? — sociale. Noi non siamo trattate bene. Mai. E l’amore, che già disarma tutti, ci porta via più difese. L’unica è resistere, perché non ci porti via la vita.
E tu come hai fatto, nella tua lunga vita, a sopravvivere all’amore?
Con la tragedia. Se non avessi avuto le tragedie greche, da recitare, dirigere, mettere in scena, non avrei retto alla tragedia dell’amore, o della vita, che è lo stesso.
Una specie di cura omeopatica: curare la tragedia con la tragedia.
E’ il principio della catarsi: la spiegazione che dà Aristotele delle proprietà guaritrici della tragedia. Rivivendo il dolore sulla scena si arriva a sopportarlo nella vita.
E’ anche la forza del mito, dell’archetipo.
Diciamo dell’origine. Edipo è la prima persona che si domanda: “Perché sono qui? Chi sono io?”.
“Conosci te stesso”: è il motto inciso sul tempio di Apollo a Delfi.
Sì, ma il punto non è il dio che te lo dice, il punto è l’io, il punto sei tu: al centro del meccanismo tragico sta il fatto che c’è un momento in cui devi sapere chi sei. Metti Prometeo. L’uomo è più grande del dio, non “di Dio,” o di “un” dio, ma della stessa essenza divina. Tutti i protagonisti delle tragedie sono messi davanti a questa realtà: tu puoi, tu sei, tu capisci, tu devi essere qui, presente a te stesso. Le tragedie greche sono testi per le persone, perché diventino persone qui ed ora. Non testi teologici, non costruzioni ideologiche, non promesse, non favolette per una vita futura. Sono congegni di trasformazione individuale nella vita presente, attraverso il principio dell’identificazione e della catarsi.
Un principio che poi è stato applicato in generale all’arte.
E’ vero, ma è rischioso. Le tragedie greche sono garantite: funzionano. Sono — come posso dire — testi magici che curano. Ma perché questo accada non bisogna alterarli. Sono architetture precisissime, ma anche fragili. Se sposti una pietra va giù tutto. Oggi la presunta creatività dei registi teatrali li contamina e li rende inefficaci.
Come?
Quando li modernizza, per esempio. Quest’anno in Grecia hanno messo in scena un Agamennone in cui il coro era composto di cani che abbaiano. Ma è mai possibile? Dobbiamo avere fiducia in ogni virgola di quei testi meravigliosi. Agamennone non può essere un burino che fuma. I registi di oggi usano la tragedia per fare le loro lezioni di teatro. Quelli dell’antica Grecia invece si domandavano: “Cosa possiamo imparare dal testo?”. E a quel tempo lo stato non solo finanziava la messa in scena delle tragedie, ma pagava gli spettatori perché andassero a vederle.
Altri tempi. Oggi non solo lo stato, anche il pubblico è cambiato.
Non è vero, lo posso testimoniare personalmente. Tutte le volte che ho messo in scena una tragedia, anche molto di recente, in Grecia come in Italia, il pubblico si è presentato in massa. Quando ho fatto la regia dell’Antigone, per esempio. Alla fine gli spettatori piangevano, e venivano a stringerci le mani, e ringraziavano. Il pubblico non è stupido. Sono stupidi quelli che cercano di abbindolarlo.
Chi sono?
Sono, come dicevo, i presunti attualizzatori del teatro antico. E lo stato moderno, che sottovaluta la sua attualità ancestrale e non fa nulla per la sua tutela. Ma io ho invertito le parti. Dò i miei soldi allo stato. Per una scuola di teatro, di cui sono fondatrice, ma che vivrà dopo di me. Una piccola università della verità e della libertà.
Suona bene. Dov’è?
E’ sulla strada che porta da Atene al Pireo, dov’erano un tempo le Grandi Mura di Pericle. Sono lì le mie — per così dire — mura interiori, la struttura, la forza che voglio comunicare. E’ lì che morirò, insegnando ai miei allievi a costruirle dentro se stessi.