Márkaris: vedi Istanbul e poi muori
“La città della mia infanzia capace di includere nella bellezza”
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“Una volta che hai visto Istanbul non riesci più a dimenticarla”, esclama Petros Màrkaris. “La chiamiamo da sempre la Polis, ‘la Città’, ma non è una città. Istanbul è una cosa che ti succede”.
E che è successa anche al commissario Charìtos, l’eroe dei bestseller polizieschi di questo ormai leggendario scrittore greco, stambuliota di madre armena e di vocazione cosmopolita. Charìtos invece è un piccolo borghese totalmente immerso nella cruda, caotica Atene in cui erano ambientate finora le sue indagini. Ma nel nuovo romanzo, La balia (Bompiani), si ritrova per la prima volta nella città natale del suo creatore.
Che cos’ha di diverso Istanbul da Parigi, Londra o Berlino?
Intanto, a differenza di Parigi, ha uno spleen felice. Quella melancolia che Pamuk ha chiamato huzun, una vitalità che si nutre proprio del senso di inconsistenza della vita. E che ha a che fare con un’altra unicità di Istanbul: la mescolanza. Come realtà storica. Ma anche come sensazione tangibile. Gli interni, gli odori delle cucine, le lingue, le tradizioni, il loro intrecciarsi e venirsi incontro nella cordialità di un perpetuo vicinato. Penso alla mia infanzia, alle scorribande coi compagni di scuola, in maggioranza ebrei e turchi, alla felice convivenza contrapposta all’intolleranza del governo. Il che è, di nuovo, tipicamente stambuliota. Fin dai tempi bizantini e ottomani, la Città è stata sempre più avanti dei suoi governanti.
Dov’era la sua scuola elementare?
A Karaköy, nel quartiere di Kuledibi, proprio dietro la torre di Galata. Ci arrivavo tutte le mattine in vaporetto, dalla piccola isola in cui abitavo, Heybeliada, una delle Isole dei Principi.
Ma è quella che i greci chiamano Chalki! Dov’è l’antica scuola teologica del patriarcato ortodosso, ora chiusa da più di trent’anni per ordine del governo turco!
Non mi ci faccia pensare o mi metto a piangere. Da bambino ci andavo un giorno sì e uno no. Quanti ricordi, la benedizione del pane nelle vacanze di Natale, la grande liturgia della Resurrezione…
E adesso?
Non ci riesco, non lo sopporto. E’ una tale ingiustizia, e un dolore così profondo vederla chiusa.
Ma lei non era ateo?
Non sono religioso in senso tradizionale. Sono grande amico di Bartolomeo, il patriarca.
Che persona intelligente.
Le racconto una cosa. Sarò entrato a Santa Sofia almeno 250 volte, e ogni volta mi commuovo.
Anche qui si mette a piangere?
Bè sì, quasi, mi viene un nodo alla gola. Così, ho chiesto a Bartolomeo: ma insomma, io non sono religioso, che diavolo è? E lui: è l’architettura, figliolo.
Torniamo alle traversate in vaporetto. Avrà visto tutte le possibili sfumature di luce della Città. Di che colore è Istanbul?
Questa sì che è difficile. Mi faccia pensare. Arancione. Il colore dei tramonti.
Niente grigio?
Quella è la faccia piovosa di Istanbul. Sa che forse la preferisco? Il momento in cui la amo di più è quando piove.
Quindi un arancio velato di grigio, un grigio con riflessi arancio. Ancora la mescolanza come identità.
La mescolanza è fertile. Istanbul è la più grande città curda del mondo: otto milioni. E oltre a loro altri milioni di persone di ogni etnia, religione, cultura. Come in passato. Questa città in una notte da capitale dell’impero bizantino lo è diventata di quello ottomano. Senza cambiare. E’ stata capace di una transizione da una civiltà all’altra senza perdere la sua identità, la bellezza che è data proprio dalla diversità e dalla capacità di includere e assimilare altra bellezza e altra diversità in un unico inconfondibile volto.
La bellezza composita dei mosaici.
Che non è solo quella bizantina. Gli ottomani sono riusciti a integrare nella Città la loro bellezza e ad accettare quella che già c’era. La Città vi ha sconfitto, dico sempre ai miei amici turchi. Avete fatto di tutto per renderla brutta, ma non ci siete riusciti. La Città vi costringe a fare cose sempre belle. Anche oggi.
Quell’istmo geopolitico che Costantinopoli presidia è stato per più di un millennio la dimostrazione storica, fattuale, della possibilità di mediazione fra quelle civiltà che oggi secondo alcuni si scontrano.
Costantinopoli è ancora un ponte. Ma la questione dello scontro di civiltà è complessa, ha a che fare con gli spostamenti di popoli, spontanei o forzati, con la loro povertà e la loro ricchezza. Il carattere multietnico dell’eredità che ci portiamo dietro è indubitabile. Ma il problema che abbiamo oggi è la ristrettezza di idee dell’Europa sull’integrazione culturale. La cultura è una portata principale che la politica ha sempre offerto solo come dessert.
Allora non le chiedo neppure dell’ingresso della Turchia in Europa, ma cosa pensa del kemalismo.
Il nazionalismo è sempre stato una malattia balcanica. Non solo turca, anche greca, e diffusa in tutto quel mondo oggi insieme emergente e disastrato.
Il mondo ex-bizantino, quello dei suoi racconti, “Balkan Blues”.
Al tempo di Kemal Ataturk il nazionalismo era indispensabile. Sono stati i suoi successori a farlo diventare intolleranza. Il grande problema della Turchia, ma in realtà di tutta l’Europa, è reinventare l’antica convivenza multietnica.
Ma lei di che nazionalità è?
Io non appartengo a una nazione, ma a una Città. Lo so, è una dichiarazione molto bizantina.