Erica Jong, paura di ricordare
Ferite e patriottismo, rituali e sentimentalismo: la scrittrice mette a nudo l'America del dopo 11 Settembre
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Erica Jong è una scrittrice popolare che trent'anni fa ha influenzato milioni di americani con il suo Paura di volare e che tutt'oggi continua a esprimere con semplicità e franchezza disarmanti lo stato d'animo, i costumi, le idiosincrasie, le contraddizioni della borghesia progressista d'oltreoceano. Per questo anche la sua percezione dei grandi eventi è istruttiva, in un momento in cui, dopo lo shock delle Torri Gemelle, ogni americano riflette sulle proprie ferite, sulla necessità di vendicarle o forse piuttosto di sdrammatizzarle, come anche Bush II è sembrato voler suggerire. L'altro ieri, alla cena organizzata dal suo migliore amico italiano per commemorare l’11 settembre, Erica Jong appariva in effetti molto diversa dall'immagine ufficiale finora offerta ai giornali. E, forse, più vera. Nel piccolo ristorante di Trastevere disseminato di foto della Dolce Vita, i capelli biondi un po' glassati e il pigiama palazzo fucsia dell'autrice del Salto di Saffo (Bompiani) avevano per sfondo una gigantografia in bianco e nero di Alberto Sordi, Anna Magnani e Totò. Forse un posto troppo allegro per commemorare una data così triste? La Jong ha risposto con insofferenza: «Oh, ma che importa? Sono così stufa di questi sentimentalismi». Il self-pity, l'autocompatimento, non si addice alla cultura che rappresenta, provata da due anni di lacrime e paura, di appelli alla patria e di retorica. Erica Jong avrebbe dovuto leggere, per l'occasione, una sua poesia: «Pallido s'infiamma il cielo su tutta la città/ e bombe fantasmagoriche/ precipitano.../ Sono morti i poeti, la città muore.../ Perché sono rimasta?». E' significativo che non lo abbia fatto. Che, rigirando sulle dita i grossi anelli, abbia invece tuonato contro quelli che ha definito «i rituali tribali» delle celebrazioni del Nine Eleven. All'interprete degli umori di una città come New York, «le candele accese, la gente che si tiene per mano, le sdolcinature dei giornali» hanno fanno venire, ha confessato, «una vera e propria nausea». L'imponente apparato di propaganda statunitense, specie in quest'ultimo anno di guerra, è sempre meno in grado di influenzare le migliaia di Erica Jong. «Quando accendo la CNN vorrei spararmi. Quelle facce dell'Ohio che gridano uccidete Saddam Hussein... Ma che tortura». Politicamente corretta, femminista, ebrea, Erica Jong esprime rancore verso l'ideologia della lotta al terrorismo. Saddam e Bush sono le due facce della stessa medaglia, «due gemelli», come Arafat e Sharon. In che senso? Riaffiora, nella discendente di Thomas e Erika Mann, cui deve appunto il primo nome, l'ossessione del grande complotto antiebraico. «Ma non avete capito che la questione mediorientale è tutta una grande bugia?», sorride soave con l'azzurro chiaro degli occhi e il rosa pastello del rossetto. «La Palestina non vuole uno stato, l'avete capito o no? Vogliono solo far fuori gli israeliani, li vogliono morti, gli ebrei, capite? E la campagna di odio che hanno scatenato ha fatto fuori intanto i Rabin e i Barak, i moderati, per fare posto a un provocatore come Sharon». Non è certo la diagnosi di una politologa né tanto meno di una storica. Ma proprio per questo i rabbiosi teoremi della newyorkese sono indicativi. La Jong ha sempre detto ad alta voce quello che gli altri non osavano esprimere. Questa volta, le sue dichiarazioni riecheggiano e amplificano il brusio fitto di un progressismo travolto dalle contraddizioni e costretto, negli schieramenti, a estenuanti acrobazie. Nella mentalità pragmatica e positiva di un'autrice di best-seller che insegnano a vivere meglio si è così insinuata, forse per la prima volta, una nota apocalittica. «Abbiamo davanti un'Armageddon». Qualcuno azzarda una citazione filmica: «Ricordi Gore Vidal in Roma di Fellini? Seduto in un ristorante di Trastevere, diceva che questo è il posto migliore per aspettare la fine del mondo...». La Jong lo fulmina: «Sì, scherzate pure. Intanto il nostro mondo sta finendo davvero. Come la civiltà greca. Non avevano già capito tutto, fatto tutto, scritto tutto anche loro? Eppure sono svaniti per sempre. Non ritroveremo mai più le loro opere perdute. Ed è quello che capiterà a noi e ai nostri libri. Scompariremo. Dopo aver liquidato la tradizione greca, distruggendo le biblioteche che ne conservavano i testi, l'intolleranza islamica eliminerà anche quella americana, che ne è l'erede diretta». Erede diretta? in che senso? «Perché laica», decreta la Jong. «La grandezza dell'America sta nella sua divisione tra Stato e Chiesa, nel suo essere un esperimento illuminista. Oggi l'amministrazione Bush ci sta trasformando in una civiltà cristiana, fondamentalista per giunta. Ci sta facendo tornare indietro alle crociate. Un paese libero esiste solo dove la religione non è un affare di Stato. Negli anni '60 e '70 siamo stati un paese libero. Oggi non più». Lo sguardo azzurro perfora gli astanti come un laser. «I nostri governanti ormai mentono su tutto. E non parlo solo dei luoghi comuni ai quali gli americani si sono ormai assuefatti, che Saddam Hussein abbia organizzato l'attacco alle Torri per esempio, che la guerra in Afghanistan e in Iraq sia contro il terrorismo. Coprono le responsabilità saudite, che sono ben più reali». «Oh - alza gli occhi al cielo -, dicono che l'americanizzazione abbia snaturato i paesi arabi, che abbia eroso le loro tradizioni, insidiato la loro civiltà...». Erica Jong si stringe nelle spalle e conclude: «Ma vedete, non mi interessa nessuna civiltà che faccia mettere il velo alle donne, che disprezzi il valore delle immagini e che proibisca la letteratura erotica». La sua solita, imbarazzante sincerità.